Iva: le fatture emesse alle Ato rifiuti, se costituite sotto forma di Società di capitali, non beneficiano dell’Iva ad esigibilità differita

Corte di Cassazione con l’Ordinanza 28 settembre 2021, n. 26208

Le Ato rifiuti, dipendenti dalle Regioni, se costituite sotto forma di Società di capitali, non rientrano tra i soggetti di cui all’art. 6, comma 5, del Dpr. n. 633/1972, per cui le fatture emesse non possono beneficiare dell’esigibilità differita dell’Iva. E’ quanto sancito dalla Corte di Cassazione con l’Ordinanza 28 settembre 2021, n. 26208.

L’Agenzia delle Entrate, a seguito del controllo automatizzato ex artt. 36-bis del Dpr. n. 602/1973 e 54-bis del Dpr. n. 633/1972, ha emesso una cartella di pagamento per Iva (oltre che per Irpef e Irap) per l’anno 2004, oltre sanzioni ed interessi, nei confronti di una Sas (trasformatasi poi in Srl) per l’omesso versamento dell’Iva (Imposta che ci limitiamo a trattare in questa sede) dovuta in relazione alle prestazioni rese verso l’Ato (Ambito territoriale ottimale) di Ragusa, istituita per la gestione dei rifiuti urbani e costituita dalla Regione Siciliana nella forma di Società di capitali.

La Società ha impugnato la cartella sostenendo la non debenza dell’Iva e, in ogni caso, degli interessi e delle sanzioni irrogate, per la sussistenza di obbiettive condizioni di incertezza della disciplina oltre che per la mancanza di colpa e per il ricorrere di cause di forza maggiore, atteso il ritardo dei pagamenti da parte dell’Ato.

La Ctp di Ragusa ha accolto il ricorso limitatamente alle sanzioni che annullava, ritenendo sussistere le condizioni di cui all’art. 6, comma 2, del Dlgs. n. 472/1997. La Sentenza era confermata dal Giudice di appello.

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione con un motivo, cui resisteva la contribuente con controricorso, poi illustrato con memoria. Nel ricorso viene denunciata, ai sensi dell’art. 360, n. 3, C.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 6, comma 5, del Dpr. n. 633/1972 e 6, comma 2, del Dlgs. n. 472/1997 per aver la Ctr escluso l’applicazione delle sanzioni nonostante l’Ato fosse soggetto di diritto privato, non riconducibile allo Stato e agli altri Enti, territoriali e non, cui solamente è riconosciuta l’agevolazione della esigibilità differita dell’Iva, esclusa ogni oggettiva incertezza interpretativa (si ricorda, per inciso, che nel 2004 non era ancora vigente la normativa sullo “split payment”, che ha ricompreso in prima battuta – salvo poi estenderne il perimetro – tutti i soggetti rientranti nel citato art. 6, comma 5, del Dpr. n. 633/1972).

Preliminarmente, a parere della Cassazione vanno disattese le eccezioni d’inammissibilità sollevate dal controricorrente: la censura mira ad aggredire la ratio della Sentenza della Ctr che ha riconosciuto le condizioni di obbiettiva incertezza “sulla portata e sull’ambito di applicazione della legge sull’Iva in caso di fatture emesse nei confronti degli Ato”, regime la cui applicabilità viene negata – al di là del trasferimento delle funzioni specifiche (i.e. la “Gestione della raccolta dei rifiuti urbani”) – trattandosi di soggetto di diritto privato.

Nel merito, il ricorso, oltre che ammissibile, è fondato.

Il citato art. 6, comma 5, del Dpr. n. 633/1972, nel testo ratione temporis applicabile, prevede il riconoscimento dell’esigibilità differita dell’Iva solo ad un novero di soggetti specificamente delimitato, ossia per le cessioni “ … fatte allo Stato, agli Organi dello Stato ancorché dotati di personalità giuridica, agli Enti pubblici territoriali e ai consorzi tra essi costituiti ai sensi dell’art. 25 della Legge n. 142/1990, alle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, agli Istituti universitari, alle Unità sanitarie locali, agli Enti ospedalieri, agli Enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico, agli Enti pubblici di assistenza e beneficenza e a quelli di previdenza”.

Il riferimento primario della disposizione è contenuto nell’art. 13, par. 1, Direttiva n. 112/2006/CE (e, in precedenza, nella disposizione omologa di cui all’art. 4, par. 5, Direttiva 77/388/CEE), secondo il quale “gli Stati, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri Enti di diritto pubblico non sono considerati soggetti passivi per le attività od operazioni che esercitano in quanto Pubbliche Autorità, anche quando, in relazione a tali attività od operazioni, percepiscono diritti, canoni, contributi o retribuzioni”, previsione che, nella prospettiva di contenere la deroga alle condizioni effettivamente necessarie e minime, è ulteriormente delimitata dalla specificazione: “tuttavia, allorché tali Enti esercitano attività od operazioni di questo genere, essi devono essere considerati soggetti passivi per dette attività od operazioni quando il loro non assoggettamento provocherebbe distorsioni della concorrenza di una certa importanza”.

Completa il quadro normativo di riferimento la disciplina in base alla quale sono state istituite le Ato. L’art. 201 del “Codice dell’Ambiente”, vigente ratione temporis, demandava alle singole Regioni le forme, giuridiche ed operative, per l’operatività delle Ato; prevedeva tuttavia che:

– “’l’Autorità d’ambito organizza il servizio e determina gli obiettivi da perseguire per garantirne la gestione secondo criteri di efficienza, di efficacia, di economicità e di trasparenza’ (comma 3);

– ad essa sono affidate le attività relative alla ‘b) raccolta, raccolta differenziata, commercializzazione e smaltimento completo di tutti i rifiuti urbani e assimilati prodotti all’interno dell’Ato’ (comma 4);

– la stessa durata della gestione, non inferiore a 15 anni, doveva essere «disciplinata dalle Regioni in modo da consentire il raggiungimento di obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità’ (comma 6)”.

L’art. 203, poi, nel disciplinare i rapporti tra le Ato e le Imprese di servizio, disponeva che essi “sono regolati da contratti di servizio”, tra i cui capisaldi vi era:

– “’l’obbligo del raggiungimento dell’equilibrio economico- finanziario della gestione’ – comma 2, lett. b);

– la previsione dei principi e delle regole generali ‘relativi alle attività ed alle tipologie di controllo, in relazione ai livelli del servizio ed al corrispettivo’ – comma 2, lett. f);

– la previsione de ‘le penali, le sanzioni in caso di inadempimento e le condizioni di risoluzione secondo i Principi del Codice civile, diversificate a seconda della tipologia di controllo’ – comma 2, lett. h)”.

Tali disposizioni portano ad escludere, a parere della Corte, che l’Ato possa rientrare nella norma agevolativa in commento, “sia in quanto costituita con le forme della Società per capitali, sia perché preposta allo svolgimento di una attività sicuramente di interesse pubblico ma secondo criteri di economicità e con il ricorso agli strumenti del diritto civile nei rapporti con le Imprese di servizio, improntati ad un rapporto di corrispettività”. Il dato imprescindibile anche per lo Stato e gli altri Enti, infatti, è costituito dall’esercizio delle loro funzioni (e delle correlate attività) come pubbliche autorità, dunque caratterizzate dall’esercizio di quei poteri, autoritativi e dispositivi, che contraddistinguono l’esercizio della funzione pubblica.

Giova rilevare peraltro, ricorda la Corte, che secondo la disciplina unionale è soggetto passivo Iva chiunque eserciti in modo indipendente un’attività economica a prescindere dagli scopi o dai risultati di quest’attività. La Corte di Giustizia infatti reputa tale anche chi eserciti attività pubblica quale concessionario d’infrastruttura, ad esempio stradale, ovvero svolga prestazioni di programmazione e gestione del Servizio sanitario, data l’ampiezza della sfera d’applicazione della nozione d’attività economica (Sentenza 12 settembre 2000, in C-260/98, punto 24; più recentemente Sentenza 25 marzo 2010, Commissione/Paesi Bassi, in C-79/09, punto 76; Sentenza 29 ottobre 2015, Saudagor, in C-174/14, punto 31 e 32, che precisa che “qualsiasi attività di natura economica è, in via di principio, imponibile. Sono assoggettate all’Iva, in generale e conformemente all’art. 2, paragrafo 1, della Direttiva 2006/112, le prestazioni di servizi fornite a titolo oneroso, comprese quelle fornite dagli enti di diritto pubblico. Gli artt. 9 e 13 della stessa direttiva attribuiscono pertanto un ambito di applicazione molto ampio all’Iva … La possibilità di qualificare una prestazione di servizi come operazione a titolo oneroso presuppone unicamente l’esistenza di un nesso diretto tra tale prestazione e un corrispettivo effettivamente percepito dal soggetto passivo. Tale nesso diretto esiste qualora tra il prestatore e il destinatario intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni e il compenso ricevuto dal prestatore costituisca il controvalore effettivo del servizio prestato al destinatario”). Si tratta dunque di Principi consolidati e risalenti anche nella giurisprudenza della Corte che ha ripetutamente affermato che il beneficio in tema di Iva può riguardare i soli Enti pubblici e dipende da 2 condizioni, ossia che l’attività sia esercitata dall’ente medesimo e che da esso sia svolta in veste di “Pubblica Autorità” (vedasi Cassazione, Sentenza n. 17795 del 06/07/2018; Cassazione, Sentenza n. 3418 del 20 febbraio 2015; Cassazione, Sentenza n. 5947 del 25 marzo 2015; vedasi anche, con riguardo alla particolare ipotesi della cd. “moratoria fiscale” di cui all’art. 66, comma 14, Dl. n. 331/1993, con cui era stato temporaneamente esteso alle Aziende di gestione, tra l’altro in materia di “raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani” il regime applicabile agli Enti pubblici territoriali di esenzione Iva, dove la Corte aveva escluso l’estensione poiché le prestazioni non erano svolte “in forza dell’esplicazione di un potere pubblico autoritativo, come nel caso di svolgimento diretto da parte dei Comuni, ma in base ad un incarico di gestione accompagnato dall’erogazione di un corrispettivo per il servizio”, Sentenza Cassazione n. 21083 del 13 ottobre 2011; Sentenza Cassazione n. 17871 del 3 settembre 2004).

In base al quadro normativo sopra illustrato e il risalente e consolidato orientamento sia della Corte di Giustizia che della Corte di Cassazione, quest’ultima ha escluso che, con riguardo alla disciplina in questione, sussista una condizione di obbiettiva incertezza. Occorre evidenziare infatti che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, “in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva, che costituisce causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, postula una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ovverosia l’insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento d’interpretazione normativa, riferibile non già ad un generico contribuente, o a quei contribuenti che per la loro perizia professionale siano capaci di interpretazione normativa qualificata (studiosi, professionisti legali, operatori giuridici di elevato livello professionale), e tanto meno all’Ufficio Finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione” (Cassazione, Sentenza n. 3108 del 1° febbraio 2019; Cassazione, Sentenza n. 15452 del 13 giugno 2018; Cassazione, Sentenza n. 23845 del 23 novembre 2016; Cassazione, Sentenza n. 13076 del 24 giugno 2015; Cassazione, Sentenza n. 4522 del 22 febbraio 2013).

Non può essere tale dunque il mero svolgimento di attività rientranti nelle finalità istituzionali di un Ente pubblico, occorrendo invece, ai fini del riconoscimento del trattamento agevolato, che l’attività fosse espletata direttamente da un Ente pubblico e, anche in questo caso, a condizione che agisse in veste di “Pubblica Autorità”, condizioni, nella vicenda in esame, entrambe pacificamente insussistenti, sia in via di fatto che sul piano astratto e normativo.

Non è apparso pertinente neppure il rimando operato, dalla Società controricorrente, alla Sentenza n. 226 del 2012 della Corte Costituzionale, atteso che, in quel caso, come esplicitamente affermato dalla Consulta, la scelta della Regione Puglia aveva seguito il diverso percorso di istituire la Ato quale “Consorzio obbligatorio di Enti Locali”, così da annoverarla quale nuovo Ente Locale, di per sé soggettivamente rilevante anche ai fini dell’art. 6, comma 5, del Dpr. n. 633/1972 (che infatti indica anche i “Consorzi tra essi istituiti”), condizione invece assente nella Causa in esame.

In merito al Pronunciamento in commento, concordando sul non ricomprendere in ogni caso l’Ato in questione tra i soggetti di cui all’art. 6, comma 5, del Dpr. n. 633/1972, in quanto non costituita come Consorzio di Enti Locali bensì come Società commerciale, quello che ci lascia perplessi è invece la condizione che i soggetti indicati in tale norma debbano operare nell’esercizio dei loro poteri autoritativi. Se così fosse significherebbe ad esempio che i Comuni che fino al 31 dicembre 2014 (prima dell’avvento dello “split payment”) acquistavano beni e servizi in ambito commerciale – e quindi evidentemente non nell’esercizio dei loro poteri autoritativi bensì in regime di impresa – non avrebbero potuto ricevere fatture con Iva ad esigibilità differita ma solo immediata, e questo non appare corretto dal momento che la richiamata norma si limita soltanto ad indicare i soggetti ricompresi nell’agevolazione, non l’ambito nel quale gli stessi operano, che potrebbe essere in taluni casi anche quello commerciale pur restando Enti pubblici, la cui attività principale è istituzionale essendo svolta nell’esercizio dei loro poteri autoritativi. Così, ancora una volta, pur rispettosamente scrivendo, i Giudici di Cassazione dimostrano una significativa assenza di chiarezza sui dettami delle Direttiva comunitarie sull’Iva e sulla loro ricadute in termini di normativa italiana e di applicazione pratica per quanto attiene le Amministrazioni e gli Enti pubblici.

di Francesco Vegni