Draghi si dimette, il Governo resta sulle emergenze. Si vota il 25 settembre

Ieri mattina Mario Draghi si è recato alla Camera per comunicare le sue dimissioni e la fine del suo Governo. Il brevissimo discorso è stato preceduto da lunghi applausi da parte dell’Aula, ovviamente dai partiti che lo hanno sostenuto. Dopo che anche i Ministri si sono alzati in piedi il Premier uscente tradisce un po’ di emozione e quasi si commuove: “Qualche volta anche i banchieri usano il cuore”. Dopo le dimissioni formalizzate nelle mani del Capo dello Stato Sergio Mattarella, per l’inquilino di Palazzo Chigi inizia una giornata fatta di passaggi istituzionali: il Consiglio dei ministri che approva la direttiva per gli affari correnti, l’andirivieni verso il Quirinale per la controfirma del decreto di scioglimento delle Camere prima e di quello che indica nel 25 settembre la data del voto poi. In Cdm Draghi prova a coinvolgere i partiti in una gestione ordinata dei prossimi mesi (confermate anche le missioni a Bruxelles per il Consiglio europeo e a settembre a New York per l’assemblea Onu), in grado di mettere il più possibile il Paese in sicurezza. “Ci sarà ancora tempo per i saluti. Ora rimettiamoci al lavoro”, dice ai ministri, nello stupore di alcuni. Il Premier ringrazia il presidente della Repubblica e i colleghi di Governo “per la dedizione, la generosità, il pragmatismo” dimostrati. “Dobbiamo essere molto orgogliosi del lavoro che abbiamo svolto. L’Italia ha tutto per essere forte, autorevole, credibile nel mondo”.

Nei mesi che separano il Paese dal voto, Draghi intende andare avanti su questa strada. Il perimetro di piena agibilità politica consentito dagli affari correnti riguarda principalmente l’emergenza Covid, il Pnrr, la crisi in Ucraina e il costo dell’energia e crescita dell’inflazione. Il Governo, che predisporrà la Nadef e lascerà invece al nuovo esecutivo la scrittura della legge di bilancio, mantiene in agenda un nuovo decreto sostegni da circa 10 miliardi anche se dovrebbe essere depurato delle norme più divisive. L’ok dovrebbe arrivare tra fine luglio e inizio agosto e anche i partiti che non hanno votato la fiducia al Governo assicurano il loro sostegno. Nel frattempo, l’esecutivo dovrebbe portare a chiusura il dl concorrenza, senza la norma sui Taxi, e il decreto semplificazioni e il cosiddetto decreto Mims 2. Insomma, nonostante una crisi, il voto anticipato e la fine anticipata della legislatura, Mario Draghi non ha esaurito il suo spirito di servizio al paese e con grande responsabilità ha chiarito di voler, per quanto possibile, abbandonare il proprio incarico lasciando l’Italia nelle migliori condizioni possibili.

Nel centrodestra si discute sulla premiership. Presto un vertice di coalizione

Giorgia MeloniMatteo Salvini e Silvio Berlusconi dovrebbero vedersi presto ma non subito. Prima FdI, Lega e FI devono fare i propri passaggi interni per portarli in un vertice di coalizione che questa volta si terrà in una sede istituzionale e non a villa Grande. I nodi da sciogliere sono tanti, oltre alle regionali, c’è la questione del metodo per l’indicazione del candidato premier della coalizione. Fino a ieri nel centrodestra c’era la regola che chi prende più voti governa ma da tempo Silvio Berlusconi ripete che se così fosse e secondo i sondaggi ci sarebbe seriamente il rischio di uno spostamento a destra che potrebbe mettere in difficoltà l’elettorato moderato. Affermazioni che, come intuibile, non sono ben viste in FdI visto che Giorgia Meloni, di gran lunga favorita nei sondaggi, non ha nessuna intenzione di cedere la premiership. C’è poi il nodo della divisione dei collegi. Lega e Forza Italia hanno fatto trapelare di essere favorevoli a una divisione in parti uguali (33%) dei collegi rispettivamente per FdI, Lega e FI, con gli azzurri che si farebbero carico di Udc e Noi con l’Italia. Mentre la Meloni chiede che la spartizione sia fatta in base ai sondaggi, come avvenuto nel 2018. Ma su questo, nel corso delle telefonate con gli alleati, la leader di Fratelli d’Italia sarebbe apparsa più disponibile a trattare. Sicuramente chiederà l’impegno alla sottoscrizione di un patto anti-inciuci.

Sul fronte delle liste, Silvio Berlusconi ha smentito vi sia la volontà da parte di Forza Italia di fare una lista unica con la Lega. “Non ci saranno liste uniche. Manterremo le nostre identità”, ha garantito. L’ex premier ha rilasciato due lunghe interviste, a Repubblica e al Tg2, per spiegare il senso della scelta di non votare la fiducia a Draghi, che ha portato all’uscita dal partito di Mariastella Gelmini, di Renato Brunetta e Mara Carfagna.  Berlusconi ha usato parole molto dure nei confronti dei fuoriusciti: “Riposi in pace chi tradisce”. Il Cavaliere, che non escluderebbe una sua candidatura, ha anticipato che sarà “in campo in prima persona” nella seppur breve campagna elettorale, e ha assicurato di aver già scritto un “programma elettorale avveniristico”. Molto dure anche le frasi usate nei confronti di Mario Draghi. Forza Italia non ha “alcuna responsabilità” della crisi, ha voluto precisare, “noi saremmo stati leali fino ad aprile/maggio del 2023”, ma sono stati i “5 stelle irresponsabili” ad aver strappato e Draghi, che “probabilmente si era stancato”, si è reso “indisponibile a un bis”, ha “preso la palla al balzo”.

Sul fronte leghista, Matteo Salvini ha incontrato ministri e sottosegretari e ha fatto sapere di essere “già al lavoro per il nuovo governo”. “Tenetevi pronti alla campagna di agosto e soprattutto a Pontida, che confermiamo il 18 settembre e che quindi assumerà un significato ancora maggiore”, ha poi detto, incontrando gli europarlamentari. Diversamente da Forza Italia, il voto anticipato non sembra allo stato dividere i leghisti. Con la caduta di Draghi il leader leghista si è politicamente ripreso il partito. Nessuno ha contrastato la decisione di lasciare il Governo, nemmeno i Governatori, e nessuno ha deciso di lasciare il partito un segnale importante che ricompatta, almeno per il momento, il partito sul suo leader.

Letta archivia il campo largo e guarda all’area Draghi

Per Enrico Letta i “responsabili” di quello che al Nazareno chiamano il “Draghicidio” sono stati chiari sin da subito. Quando il segretario condivide la sua analisi di fronte a deputati e senatori dem, nella sala del Mappamondo della Camera scatta un applauso quasi liberatorio. “Le responsabilità di chi non ha votato la fiducia sono di tutti i partiti. Non faccio classifiche di responsabilità”, dice il leader facendo riferimento al M5S. “Decideremo collegialmente, come abbiamo sempre fatto, la conformazione della nostra offerta politica, il programma e i compagni di strada. È evidente che il voto di ieri impatta molto”, ammette. A sera il tono del segretario è definitivo: “Noi partiremo da una nostra proposta, poi per me è impossibile fare alleanze elettorali in questa tornata con i tre partiti che hanno fatto cadere Draghi”, taglia corto in TV. Il campo largo, insomma, è praticamente archiviato.

Enrico Borghi, componente della segreteria, e Alessandro Alfieri, portavoce di Base riformista, parlano all’unisono di voto “in mare aperto”. Lorenzo Guerini apprezza la linea scelta dal segretario. I dem rivendicano di essere stati gli unici ad aver sostenuto Draghi fino alla fine ed aver provato a portare a casa un epilogo diverso. Al Nazareno smentiscono ogni possibile sostegno alla trattativa che è andata in scena a palazzo Madama per un Draghi bis, trattativa condotta anche da Matteo Renzi e Giancarlo Giorgetti e che avrebbe potuto portare al ritiro della risoluzione di Pier Ferdinando Casini e al voto della mozione del Carroccio. Nei contatti con Palazzo Chigi l’accordo non si è trovato e per i dirigenti Pd “era proprio Salvini che non lo voleva per non restare intrappolato nella camicia di forza del Governo con Meloni all’opposizione”. Letta e i suoi registrano piuttosto la “profonda delusione” per “l’incapacità” di contrastare il precipitare degli eventi da parte di chi “si era attribuito patenti di moderatismo: da Giorgetti a Zaia e Fontana nella Lega, e soprattutto dentro FI”.

Il segretario Letta torna a chiedere ai suoi di fare squadra e di tirare fuori “gli occhi di tigre”. “È nei nostri occhi che gli elettori devono vedere la volontà di vincere. Comincia una straordinaria avventura per raccontare una differenza: noi non siamo come gli altri. Chi si è assunto la responsabilità di fare un danno al Paese dovrà pagare nelle urne le conseguenze”. Nei prossimi giorni si aprirà il cantiere delle alleanze in vista del voto. Gli organi dem si riuniranno a partire da martedì per decidere la rotta, anche se c’è già chi ipotizza che a far parte dello schieramento potrebbe essere chi sin qui ha sostenuto Draghi: Azione e Ipf, ma anche Iv. Ma su questo ci sono già i primi attriti. Matteo Renzi e Carlo Calenda chiedono al Pd di rinunciare alle primarie con M5S in Sicilia. Il cantiere è aperto e presto, visti i tempi stretti, i partiti del centrosinistra dovranno prendere delle decisioni.

La corsa al voto riapre il dibattito sulle regionali in Sicilia, Lombardia e Lazio

Con lo scioglimento delle Camere e la decisione di andare ad elezioni il 25 settembre, non poche sono le incognite e le ripercussioni che riguardano anche il voto nelle Regioni. La prossima ad andare alle urne sarà la Sicilia. E proprio la regione siciliana sarà il primo banco di prova del ritrovato centrodestra unito. Giorgia Meloni vorrebbe la riconferma unitaria del governatore uscente Nello Musumeci, contrastato però da un’ampia parte del resto centrodestra. Non va meglio nel centrosinistra, dove non manca chi, come il senatore di Italia Viva Davide Faraone, chiede lo stop alle primarie del campo largo previste per domenica. Una decisione non è stata ancora presa, dopo l’affossamento di Draghi tra Pd e M5S i rapporti si sono interrotti e la fine del campo largo viene data quasi per scontata. Enrico Letta non ha ancora chiuso sull’ipotesi derubicando la questione ad una questione territoriale. Sempre in Sicilia, poi, fa capolino l’ipotesi di dimissioni anticipate del presidente Musumeci per accorpare il voto delle regionali a quello delle politiche.

Possibilità di cui da diversi giorni si parla anche in Lombardia, anche se fonti della giunta regionale per ora smentiscono. Le voci parlano della possibilità che Attilio Fontana o in alternativa la maggioranza dei consiglieri del centrodestra potrebbero lasciare gli incarichi subito dopo l’approvazione dell’assestamento di bilancio, calendarizzato per il 27 luglio. I tempi per il voto a settembre, pur essendoci in linea teorica, sarebbero comunque strettissimi dal punto di vista tecnico. La prossima settimana i consiglieri leghisti e i vertici regionali del partito si incontreranno per valutare la situazione politica. Ieri Matteo Salvini ha chiarito che l’orizzonte è la primavera del 2023 e che “Attilio Fontana lavorerà fino all’ultimo giorno nell’interesse dei cittadini”. Nessun passo indietro, intanto, dalla vicepresidente Letizia Moratti, che resta in attesa della risposta del centrodestra sulla sua disponibilità a correre per la guida della regione. Nel campo del centrosinistra, invece, è sempre più in salita la costruzione del campo largo con i 5 Stelle. Tema che è stato aggravato dalla crisi di governo ma che, visto il poco peso del partito nella Regione è sempre stato visto con forti perplessità.

Nel Lazio, dove i 5 Stelle sono già in giunta e per ora viene smentita ogni possibile crisi, c’è anche la variabile Nicola Zingaretti. Il governatore, che in primavera concluderebbe il suo secondo mandato, potrebbe e vorrebbe correre in Parlamento. I due incarichi sono incompatibili ma non è prevista l’ineleggibità. L’ex segretario Pd avrebbe a disposizione 90 giorni per scegliere uno dei due incarichi e altri 90 per indire le elezioni. Forse il Lazio è la regione più complessa per il futuro delle alleanze visto che per anni il centrosinistra, a partire da Zingaretti, ha lavorato alla costruzione del campo largo e che da tempo ormai la stessa giunta regionale vede una componente del M5S. E sulle future alleanze si esprime anche il leader di Iv Matteo Renzi: “Come si va alle elezioni poi cambia anche come si va in Lazio e Lombardia. Chi ha orecchie per intendere intenda”.


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