Premessa
La Sentenza della Cassazione Sezioni Unite n. 22406, decisa il 7 novembre 2017 e depositata il 13 settembre 2018, affronta nuovamente la valutazione della sussistenza della competenza della Corte dei conti in merito ai fatti di mala gestio compiuti dagli Amministratori delle Società“in house”. L’argomento è apparentemente nuovo per 2 ordini di motivi: il primo è connesso ai fatti rilevanti succeduti in periodo risalenti la prima metà fra gli annitra 2010 e 2015 e quindi prima dell’emanazione del “Testo unico in materia di Società a partecipazione pubblica” (Tusp)e prima anche delle note Sentenze dalla Cassazione a Sezioni Unite che hanno affermato – con le precisazioni che ora occorre tenere conto con il presente giudicato – la giurisdizione della Corte dei conti per gli atti compiuti dagli Amministratori delle Società“in house”; il secondo motivo è che la richiesta della difesa non riguarda l’esclusione della giurisdizione della Corte dei conti quanto la verifica della sussistenza della concorrente azione di responsabilità attivabile dal Curatore fallimentare ai sensi dell’art. 146 della “Legge Fallimentare”.
La Sentenza, prima di giungere alle conclusioni in tema di riparto di giurisdizione esclusiva o concorrente della Corte dei conti, ripercorre le più importanti questioni che hanno visto coinvolte le Società“in house” e la disciplina (pubblica o privata) ad essa applicabile; la Corte affronta i vari argomenti attraverso un excursus delle Pronunce della stessa Corte di Cassazione.
- Società di diritto comune, Società di diritto singolare e Società“in house”
Si deve osservare come il Tusp non abbia ad oggetto le Società di diritto singolare in quanto all’art. 1, comma 4, lett. a), dispone che“restano ferme: a) le specifiche disposizioni, contenute in leggi o regolamenti governativi o ministeriali, che disciplinano Società a partecipazione pubblica di diritto singolare costituite per l’esercizio della gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale o per il perseguimento di una specifica missione di pubblico interesse; […]”.
Le Società di diritto singolare sono state costituite o verranno costituite sulla base di leggi speciali e non invece sulle ordinarie e generali disposizioni contenute nel Codice civile.
Diversamente le Società“in house”, per espressa scelta del Legislatore sono invece, a dispetto delle aspettative di molti, di diritto comune e rientrano così nel Tusp, che ad esse dedica solo alcune definizioni ed alcune deroghe al Codice civile – oltre alla riconosciuta giurisdizione della Corte dei conti – senza tuttavia disporre una specifica autonoma disciplina. In questo contesto non sono di ausilio le disposizioni del “Codice dei contratti pubblici” (Dlgs. n. 50/2016), in quanto finalizzate unicamente a stabilire le condizioni che consentono l’affidamento in deroga alle gare pubbliche e rimanendo dunque circoscritte a tale ambito ovvero nell’ambito della relazione che si instaura ai fini dell’appalto/concessione e non ai fini delle statuizione delle regole di governance della Società, che rimangono naturalmente di spettanza del Codice civile al pari di ogni altra Società, come in appresso precisato[1].
Tale osservazione si era resa necessaria in quanto le più risalenti interpretazioni della Cassazione – ma anche della Corte Costituzionale con riguardo a Società di promanazione regionale – avevano ad oggetto Società a partecipazioni statali nate su disposizioni di legge speciale e talune conclusioni che si sono raggiunte in materia di qualificazione della natura pubblica della Società in quanto finalizzata al raggiungimento di finalità pubblicistiche non possono semplicisticamente essere ad oggi traslate sulle Società“in house” e ragione di ciò sono le successive Sentenze della Cassazione passate in rassegna dalla Sentenza in commento.
- Il caso esaminato dalla Cassazione Sezioni Unite
Il ricorso avanti le Sezioni Unite – che riguarda il regolamento preventivo di giurisdizione – è stato proposto nel procedimento aventi il Tribunale delle imprese relative al giudizio riguardante le azioni di responsabilità richieste ai sensi del Codice civile e della “Legge Fallimentare” (art. 146 della “Legge Fallimentare”) nei confronti di Amministratori, Sindaci, Direttore generale e Revisore della Società nonché nei confronti dello stesso Comune socio.
La materia del contendere, al di là della verifica dell’effettiva conformazione della Società a partecipazione pubblica al modello “in house providing”, vede, da un lato il ricorrente che chiede il riconoscimento delle competenza esclusiva della Corte dei conti per il giudizio che deve affermare la responsabilità degli Amministratorie degli altri soggetti chiamati in giudizio, dall’altro lato il fallimento che invece ritiene che, essendo intervenuta la declaratoria di fallimento, non può non applicarsi il disposto dell’art. 146 della “Legge Fallimentare”[2]. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in Camera di consiglio sulla base delle conclusioni del Pubblico Ministero che ha concluso per l’affermazione della giurisdizione del Giudici amministrativo.
La Sentenza della Sezioni Unite conclude con il riconoscimento del Giudice ordinario attraverso un articolato excursus dei precedenti già deciso dalla Corte di Cassazione in tema di Società“in house”, svolgendo una rassegna dei temi di maggior interesse su tale modello societario che vanno dalla definizione di danno erariale e danno patrimoniale della Società ed i termini entro i quali sussiste la giurisdizione contabile come riconosciuta da un precedente della stessa Sezioni Unite, riprendendo poi la disamina della disciplina applicabile all’esercizio dei diritti dell’azionista pubblico che rimane di diritto privato (non juri imperi), il riconoscimento della fallibilità delle Società pubbliche fino a riprendere un recente precedente del 2017 che statuisce che la Società“in house” rimane attratta alle norma di diritto privato non mutando la propria natura per il fatto della presenza di soci pubblici.
- La disciplina del Codice civile e le leggi di diritto comune si applicano alle Società“in house”
L’analisi preliminare delle Sezioni Unite affronta: (i) la Sentenza sempre delle Sezioni Unite25 novembre 2013, n. 26283 – che ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti e (ii) l’art. 4, comma 13, del Dl. n. 95 del 2012, convertito con modificazioni nella Legge n. 135/2012.
Il riferimento alla precedente Sentenza n. 26283 del 2013 ha consentito di riprendere – anche se brevemente – le caratteristiche della Società“in house” e sulla base di tali caratteristiche affermare la giurisdizione della Corte dei conti per i danni causati al patrimonio della Società dall’agire dei propri Amministratori e ciò in quanto:
- il“controllo analogo” determina la totale assenza di un potere decisionale proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi Organial potere gerarchico dell’Ente pubblico titolare della partecipazione sociale;
- le Società“in house”,“quantomeno ai fini del riparto di giurisdizione”, costituiscono delle articolazioni della Pubblica Amministrazione da cui promanano: l’impossibilità di configurare un rapporto di alterità tra l’Ente Locale pubblico e la Società“in house” si riflette anche sulla qualificazionedel patrimonioda intendersiin termini di mera separazione e non di distinta titolarità con conseguente affermazione della natura erariale del danno cagionato dagli atti illegittimi dei suoi Amministratori.
Sulla base di tale Sentenza, oltre ad affermare la giurisdizione della Corte dei conti – riconosciuta ora anche dall’art. 12 del Tusp anche se in termini più espansivi – la dottrina e la prassi hanno ritenuto di qualificare la Società“in house” come “delegazione interorganica”, “longa manus” dell’Ente pubblico socio con il ritorno ad una qualificazione che rievocava l’idea di Società quale Organo della Pubblica Amministrazione, mettendo in dubbio la loro natura di soggetto di diritto privato.
Il riferimento all’art. 4, comma 13, del Dl. n. 95/2012, convertito con modificazioni nella Legge n. 135/2012, ha necessitato, da parte delle Sezioni Unite in commento, di una specifica valutazione del predetto disposto di legge che recita: “le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di Società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del Codice civile in materia di Società di capitali”.È ciò in quanto il principio – che appare decisivo ai fini dell’indagine che deve essere svolta – ha trovato conferma diretta nell’art. 1, comma 3, del Tusp.
La disposizione dell’art. 4, comma 13, viene considerata norma di chiusura del sistema e pertanto dal 2012 non può sorgere più alcun dubbio – come precisato dalla interpretazione delle Sezioni Unite – che alle Società a partecipazione pubblica, a prescindere dalla quota di partecipazione minoritaria o totalitaria dell’Ente pubblico ed anche in caso di Società“in houseproviding”, si applichino le disposizioni del Codice civilein materia di Società di capitali: il Sistema di governance è quelle del “tipo” societario previsto dal Codice civile salvo deroghe sulla base di leggi speciali, che l’art.1, comma 3, del Tusp, richiede siano enunciante dallo stesso “Testo unico”.[3]
Peraltro, anche in epoca recente sempre le Sezioni Unite hanno affermatoche“rileva concretamente e in modo decisivo – come si vedrà – per la soluzione della presente questione di giurisdizione nel senso dell’affermata attribuzione della controversia de qua al Giudice ordinario, l’art. 4 (che reca la rubrica: ‘Riduzione di spese, messa in liquidazione e privatizzazione di Società pubbliche’), comma 13, quarto periodo, del Dl. n. 95/2012 (‘Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario’), convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della Legge n. 135/2012, secondo cui: ‘13. […] Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di Società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del Codice civile in materia di Società di capitali’;’ – (…) “l’inquadramento ‘privatistico delle Società con partecipazione dello Stato o di Enti pubblici è conforme con gli orientamenti espressi sia dalla Corte di giustizia UE – che, con le Sentenze Volkswagen (Sentenza 23 ottobre 2007, nella causa C-112/05) e Federconsumatori (Sentenza 6 dicembre 2007, nei Procedimenti riuniti nn. C-463/04 e C-464/04), ha ritenuto collidenti con l’art. 56 del Trattato CE disposizioni che incidano sul principio della ‘parità di trattamento tra gli azionisti’ – sia dalla Corte Costituzionale che, con le Sentenze n. 35/1992 e n. 233/2006, ha ricondotto al diritto privato le disposizioni sulla nomina e sulla revoca degli Amministratori ed ha sottolineato che l’intuitus personae sotteso al rapporto di nomina degli Amministratori esclude la rilevanza immediata dei princìpi di cui all’art. 97, comma 2, della Costituzione (buon andamento ed imparzialità)(Cassazione, Sezione Unite – Ordinanza 23 gennaio 2015 n. 1237); nonché “Disposizione, questa [l’art. 4 comma 13, quarto periodo, del Dl. n. 95/2012], che elimina qualsiasi dubbio circa l’inquadramento privatistico delle Società con partecipazione dello Stato o di Enti pubblici, la cui specifica disciplina sia contenuta esclusivamente o prevalentemente nello Statuto sociale. Tale norma infatti, ancorché introdotta in un Provvedimento legislativo volto specificamente al contenimento della spesa pubblica (cosiddetta ‘spendingreview’), ha natura esplicitamente interpretativa e come tale efficacia retroattiva, si caratterizza quale clausola normativa ermeneutica generale (norma di chiusura) salvo deroghe espresse, ed impone all’interprete (il quale dubiti dell’interpretazione di disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di Società a totale o parziale partecipazione pubblica) di optare comunque per l’applicazione della disciplina del Codice civile in materia di Società di capitali” (Cassazione,Sezione Unite, Sentenza 1° dicembre 2016, n. 2459).
- La disciplina applicabile alle Società “in house”
La Sentenza delle Sezioni Unite affronta diversi aspetti che riguardano la disciplina applicabile alle Società “in house”. I temi sono particolarmente dibattuti ed apparentemente hanno come punto di partenza il tentativo di qualificare la natura di dette Società distinguendo fra diritto privato o diritto pubblico. Per la verità, ancorché la interpretazione data confermi la natura di diritto privato, ciò che appare ora ulteriormente chiarito è che, anche a prescindere dalla natura di dette Società, non è più ammessa una estensione delle disposizioni di legge che si applicano ai soci – Pubbliche Amministrazioni – direttamente alle Società “in house” se ciò non viene espressamente previsto da norma di legge. Tale principio va letto come l’introduzione di una deroga alle disposizioni del Codice civile e quelle di diritto comune.[4]
4.1. La fallibilità delle Società pubbliche
L’art. 14 del Tusp sembra avere chiarito ogni dubbio sulla fallibilità delle Società pubbliche. Appare in discussione la portata interpretativa o innovativa della disposizione visto i precedenti giurisprudenziali non univoci.
Sul punto, la Sentenza in commento riprende la precedente Cassazione Civile 7 febbraio 2017, n. 3196, che aveva riconosciuto la fallibilità delle Società pubbliche sulla base dei seguenti argomenti, che per quanto interessa in questa sede possono così sintetizzarsi:
- gli Enti Locali, quando utilizzano le Società di capitali, perseguono l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico che comporta che dette Società assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione del principio di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza;
- l’art. 1 della “Legge Fallimentare” esclude dall’area della concorsualità gli Enti pubblici “e non le Società pubbliche”: per queste ultime trovano applicazione le norme del Codice civile “(Dl. n. 95/2012, art. 4 comma 13, convertito con modificazioni dalla Legge n. 135 del 2012 e quindi, Dlgs. n. 175/2016, art. 1, comma 3);
- vanno respinte “le suggestioni dirette alla compenetrazione sostanzialista tra tipi societari e qualificazione pubblicistiche, al di fuori della riserva di legge di cui alla Legge n. 70 del 1975, art. 4, che vieta la istituzione di Enti pubblici se non in forza di atto normativo”.
La norma dell’art. 14 ha portata generale e quindi sembra applicarsi anche alle Società a partecipazione pubblica di diritto singolare costituite, come indicato in precedenza, sulla base di norme di legge.
Le conclusioni affermate valgono proprio per le Società “in house”; l’accertamento della condizione delle “in house”, secondo i tassativi parametri di legge (art. 5 del Dlgs. n. 50/2016 e art. 16 del Tusp), è decisivo e la cui carenza esclude ab origine la giurisdizione contabile[5] e neppure è ammessa la presunzione della condizione delcitato ”inhouse” di fatto o simulato[6].
Nell’ambito delle Società a partecipazione degli Enti Locali, lascia qualche dubbio la fallibilità delle Società c.d“delle reti”, che hanno ricevuto in proprietà le reti dell’acquedotto. Tali Società hanno potuto ricevere in proprietà beni del demanio acquedottistico comunale in virtù di una norma di legge[7] ora abrogata che era funzionale a favorire la separazione fra proprietà delle c.d. essentialfacility (allocate nelle Società delle reti) e gestione del “Servizio idrico” allocato in altra diversa Società, avviando un processo di industrializzazione per il quale il modulo della Società per azioni appariva preferibile.
Si deve concludere quindi che le Società delle reti, in vigenza dell’art. 113, comma 13, del Tuel, sono divenute proprietarie delle reti idriche (reti, impianti e dotazioni patrimoniali) dando luogo ad un fenomeno simile alla sdemanializzazione di fatto. Le Società delle reti hanno acquisito tale proprietà, o attraverso un conferimento, o attraverso un aumento del capitale sociale (e quindi accrescendo la garanzia dei terzi creditori), ovvero pagando un prezzo per l’acquisto e sovente indebitandosi.
Se si ammette il fallimento di tali Società, come apparirebbe dal tenore dell’art. 14 del Tusp, si deve allora consentire che il Curatore fallimentare possa legittimamente porre in vendita al miglior offerente tali asset con la verifica della sola condizione che esse mantengono la destinazione d’uso ovvero l’asservimento all’esercizio del pubblico servizio. Verosimilmente appare invece prima logico e poi anche necessario che le reti ritornino nella proprietà dell’Ente Locale socio – originario proprietario – al fine di ricostituire la situazione quo ante di legittima condizione di beni demaniali. Tale auspicato ri-trasferimento della proprietà in capo all’Ente Locale socio deve però scontare il prezzo di trasferimento che l’Ente Locale dovrà riconoscere alla massa fallimentare, non potendo certamente invocarsi una devoluzione gratuita come avviene nelle concessioni. L’avere consentito la sdemanializzazione delle reti con allocazione della proprietà in Società, che possono a loro volta fallire, denota una non coerenza del sistema che finisce per penalizzare la proprietà pubblica di beni essenziali allo svolgimento di un servizio pubblico, quale il “Ciclo idrico integrato”.
4.2 Il reclutamento del personale ed il rapporto di lavoro subordinato
L’art. 19 del Tusp, rubricato “Gestione del personale”, ha definitivamente stabilito che si applicano ai dipendenti delle Società a partecipazione pubblica le disposizioni del Libro V, Capo I, Titolo II del Codice civile, vale dire le regole privatistiche del rapporto di lavoro subordinato e ferma restando la giurisdizione ordinaria sulla validità dei provvedimenti e delle procedure di reclutamento del personale.
Si conferma il principio risalente a Cassazione Sezioni Unite, Ordinanza 22 dicembre 2011, n. 28329, che aveva già stabilito che l’attività di reclutamento del personale “si inserisce pur sempre nell’agire (jureprivatorum) della Società, senza comportare esercizi di pubbliche potestà e senza incidere sulla giurisdizione”. Deve dunque coerentemente concludersi che le Società “in house”, lungi dall’essere Enti di diritto pubblico e articolazioni sostanziali di una Pubblica Amministrazione, rappresentano al contrario soggetti che operano secondo il diritto privato, dunque ontologicamente estranei all’ambito di operatività dell’art. 1, comma 2, del Dlgs. n. 165 del 2001.
In questo senso militano:
- Corte di Cassazione a Sezioni Unite, Sentenza 27 marzo 2017, n. 7759, che ha annullato per difetto di giurisdizione la Sentenza del Consiglio di Stato, Sezione VI, depositata l’11 dicembre 2015, che aveva sostenuto la natura pubblicistica delle Società “in house”, in quanto riscontrava in esse la natura di articolazione in senso sostanziale della Pubblica Amministrazione, con conseguente applicabilità per le medesime dell’art. 1, comma 2, del Dlgs. n. 165/2001. Tale Sentenza della Cassazione motiva con 2 precedenti:
- Sentenza a Sezioni Unite 25 novembre 2013, n. 26283, nella parte in cui afferma che le Società “in house” costituiscono in realtà mere articolazioni della Pubblica Amministrazione e quindi necessariamente ne dovrebbero rispettare le regole generali di funzionamento – va in realtà interpretata nel senso già indicato dalle Sezioni Unite con propria Sentenza 1° dicembre 2016, n. 24581, per cui “il precedente del 2013 non ha una valenza generale che impone l’applicabilità di tutte le regole che disciplinano le Pubbliche Amministrazione ma è riferita alla disciplina del riparto di giurisdizione nel caso di azione di responsabilità per danno erariale (questione che involge in specifico l’utilizzazione del denaro pubblico)”;
- Sentenza Sezioni Unite 1° dicembre 2016, n. 24581 che “precisa principi in toto applicabili alla fattispecie in esame che si condividono e cui si intende dare continuità”. La Corte ha infatti precisato (cfr. punto 5 della motivazione) “che è bensì vero che le Sezioni Unite di questa Corte, nella già menzionata Sentenza n.26283/13, hanno affermato che le Società ‘in house’ costituiscono in realtà articolazioni della Pubblica Amministrazione da cui promanano e non soggetti giuridici adessa esterni e da essa autonomi; tuttavia, hanno altresì avuto cura di precisare che siffatta affermazione va intesa ai limitati fini del riparto di giurisdizione. Precisazione, questa, che si riferisce, ovviamente, al riparto di giurisdizione riguardante l’azione di responsabilità per danni arrecati dall’illegittimo comportamento degli Organi sociali al patrimonio della Società, che costituiva oggetto di quel giudizio(….).Ciò non implica però, necessariamente, che anche sotto ogni altro profilo l’adozione del paradigma organizzativo societario che caratterizza le Società ‘in house’ sia irrilevante e che le regole proprie del diritto societario siano poste fuori gioco. Sarebbe illogico postulare che la scelta di quel paradigma privatistico per la realizzazione delle finalità perseguite dalla Pubblica Amministrazione sia giuridicamente priva di conseguenze, ed è viceversa del tutto naturale che quella scelta, ove non vi siano specifiche di posizioni in contrario o ragioni ostative di sistema, comporti l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento societario adoperato’.[8] In forza delle suesposte argomentazioni, la Sentenza della Sezione VI del Consiglio di Stato, che aveva affermato il contrario, è stata pertanto annullata dalle citate Sezioni Unite con l’Ordinanza 27 marzo 2017 n. 7759, stante insanabile difetto di giurisdizione in ragione della erroneità del presupposto giuridico: aver cioè ritenuto che le Società ‘in house’ costituissero articolazione in senso sostanziale della Pubblica Amministrazione, laddove invece per esse vige quel ‘paradigma privatistico’ che comporta ‘l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento societario adoperato’;
- Consiglio di Stato, Sezione VI, Sentenza 11 dicembre 2015, n. 5643, che ha stabilito che, “con la recente Sentenza n. 27 marzo 2017, n. 7759, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno dichiarato la sussistenza della giurisdizione del Giudice ordinario in materia di controversie relative alle procedure di assunzione di personale alle dipendenze di Società c.d‘in houseproviding’ ed hanno conseguentemente annullato la suindicata Sentenza del Consiglio di Stato, Sezione VI, 11 dicembre 2015 n. 5643”;
- Cassazionecivile, Sezione Lavoro, Sentenza 9 gennaio 2018, n. 271, che, riprendendo l’insegnamento delle Sezioni Unite citate, ha ribadito la giurisdizione del Giudice ordinario per le controversie di lavoro in quanto alle Società “in house” si applica la disciplina privatistica del lavoro.[9]
- Tar Umbria, Sentenza 29 gennaio 2014, n. 83[10][11]. Confermano le conclusioni del Tar Umbria le successive Sentenze Tar Lazio – Roma Sezione II–ter, Sentenza n. 7254 del 21 giugno 2017[12]; Tar Toscana Sezione I,Sentenza n. 1094 del 25 luglio 2018;Tar Abruzzo–Pescara, Sentenza n. 101 del 15 marzo 2018, che ricostruisce la consolidata giurisprudenza sulla competenza del Giudice ordinario per le controversie di lavoro che riguardano le Società “in house” risalenti ad anni precedenti l’emanazione dell’art. 4, comma 13, della “Spending review”, in base al principio che le Società a partecipazione pubblica non rientrano nella fattispecie delle Pubbliche Amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del Dlgs. n. 165/2001.[13]
Sintetizzando, per quanto esposto si deve concludere che:
- leSocietà “in house” non sono classificabili fra le Pubbliche Amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del Dlgs. n. 165/2001, e ad esse non si applica tale disciplina pubblicistica bensì le disposizioni contenute nel Codice civile e le norme generali di diritto privato salvo le deroghe previste dal Tusp;
- le disposizioni contenute nell’art. 18 del Dl. 25 giugno 2008, n. 112 come sostituite dalle disposizioni dell’art. 19 del Tusp si atteggiano a:
- norme di rango eccezionale, in quanto derogatorie del Codice civile e delle disposizioni del diritto comune sul reclutamento del personale dipendente e pertanto di stretta interpretazione letterale ai sensi dell’art. 14 delle Preleggi;
- norma di rango sostanziale, in quanto le procedure di reclutamento del personale dipendente sono atti posti in essere da un soggetto di diritto privato nell’esercizio di poteri privatistici senza comportare l’esercizio di potestà pubbliche, come inequivocabilmente dispone la legge – art. 19 del Tusp – che rinvia alla giurisdizione ordinaria e non amministrativa.[14]
4.3. L’esercizio dei diritti dell’azionista e la competenza del Giudice ordinario (nomina e revoca diretta degli Amministratori)
La Sentenza in commento ritorna sul tema della giurisdizione per l’esame delle controversie fra soci pubblici e controversie fra la Società “in house” ed i soci pubblici riprendendo alcuni precedenti sempre della stessa Corte.
Infatti, si legge che “queste Sezioni Unite, anche alla luce di talune Decisioni della Corte dei conti e della posizione critica assunta da una parte della dottrina, hanno poi effettuato importanti precisazioni, soprattutto approfondendo il tema della riferibilità degli atti compiuti dall’Ente pubblico utisocius, non derivanti dall’esercizio di poteri di natura pubblicistica. Si e quindi affermato che, ‘in tema di Società partecipata da un Ente Locale, pur quando costituita secondo il modello del cd. ‘in houseproviding’, le azioni concernenti la nomina o la revoca di Amministratori e Sindaci, ai sensi dell’art. 2449, Codice civile, spettano alla giurisdizione del Giudice ordinario, non di quello amministrativo, perchè investono atti compiuti dall’Ente pubblico utisocius, non jure imperii, e posti in essere a valle della scelta di fondo per l’impiego del modello societario, ogni dubbio essendo stato sciolto a favore della giurisdizione ordinaria dalla clausola ermeneutica generale, in senso privatistico, prevista dal Decreto-legge n. 95 del 2012, art. 4, comma 13, convertito con modificazioni dalla Legge n. 135 del 2012, oltre che dal principio successivamente stabilito dal Decreto legislativo n. 175 del 2016, art. 1, comma 3 (nella specie, peraltro, inapplicabile rationetemporis), a tenore del quale, per tutto quanto non derogato dalle relative disposizioni, le Società a partecipazione pubblica sono disciplinate dalle norme sulle Società contenute nel Codice civile’ (Cassazione, Sentenza 1° dicembre 2016, n. 24591; Cassazione, Sezione Unite, Sentenza 27 marzo 2017, n. 7759). In particolare, l’individuazione della portata della citata Pronuncia n. 26283 del 2016, i cui principi sono stati in linea generale ribaditi, è stata effettuata sulla base della conseguenzialità della scelta del paradigma privatistico, ragion per cui si ritenuto ‘del tutto naturale che quella scelta, ove non vi siano specifiche disposizioni in contrario o ragioni ostative di sistema, comporti l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento societario adoperato’“.
In senso adesivo alle conclusioni della Sentenza in commento anche Cassazione, Sezioni Unite, Ordinanza 14 settembre 2017, n. 21299, che ha confermato: (i) che “la Società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché la P.A. ne possegga in tutto o in parte le azioni in quanto il rapporto fra società ed ente è di assoluta autonomia (…) (cfr. con riferimento a Spa possedute da Comuni CassazioneSezione Unite, Sentenza 15 aprile 2005, n. 7799)”; (ii)“che per la Pubblica Amministrazione l’esercizio dei propri diritti di azionista – nel caso di specie la revoca dell’Amministratore della Società – non è ‘espressione di una potestà amministrativa bensì dei poteri alla stessi attributi dalla legge e trasfusi nello statuto della Società per azioni e quindi manifestazione di una volontà essenzialmente privatistica’”. Anche le Sezioni Unite del 2017 hanno concluso per il riconoscimento della giurisdizione del Giudice ordinario, confermando il precedente Cassazione, Sezione Unite, Sentenza 1° dicembre 2016, n. 24591, specificatamente riferito al caso di Società “in house”.
Peraltro, il tema del rapporto fra socio pubblico e Società partecipata, ancorché riferito all’esercizio dei diritti di azionista, è quello che nel tempo ha dato luogo all’affermarsi di numerosissimi pronunciamenti della Suprema Corte di Cassazione secondo i seguenti affermati principi interpretativi: “la Società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché” un Ente pubblico (Stato o Enti Locali) “ne possegga in tutto o in parte, le azioni”:
– “ in quanto il rapporto fra Società ed Ente [pubblico] è di assoluta autonomia, [a quest’ultimo] non essendo consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della Società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitarsi a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli Organi della Società (Cassazione,Sezione Unite, Sentenze nn. 2505/2015, 1237/2015, 17287/2006; 7799/2005);
– “dato che tale Società, quale persona giuridica privata, opera nell’esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’Ente pubblico” (Cassazione, Sezione Unite, Sentenze nn. 2505/2015, n. 1237/2015)[15]“.
4.4 La diversa disciplina fra Organismi che esercitano servizi pubblici locali e Enti pubblici locali (Impresa pubblica vs Pubbliche Amministrazioni)
In tema di disciplina applicabile alla Società a partecipazione pubblica, si deve registrare un’interessante recente Sentenza della Cassazione Sezioni Unite (9 agosto 2018, n. 20684), che affronta il tema da angolo visuale completamente diverso rispetto ai precedenti qui citati, pur raggiungendo i medesimi risultati interpretativi.
La questione riguarda un’Azienda speciale che eroga un “servizio pubblico locale” e la controversia portata all’attenzione della Suprema Corte attiene alla applicazione o meno della disciplina delle forme dei contratti pubblici se applicabile anche a tale soggetto. La massima di tale decisione afferma che, in virtù della natura imprenditoriale dell’attività svolta dall’Azienda speciale di Ente territoriale e della sua autonomia organizzativa e gestionale dall’Ente di riferimento, l’Azienda stessa, pur appartenendo al sistema con il quale l’Amministrazione locale gestisce servizi pubblici aventi finalità sociale e di promozione dello sviluppo delle comunità locali, non può qualificarsi Pubblica Amministrazione in senso stretto, sicché per i suoi contratti non è imposta la forma scritta “ad substantiam” ai sensi degli artt. 16 e 17 del Rd. n. 2440/1923, e vige al contrario il principio generale della libertà delle forme di manifestazione della volontà negoziale.
Interessanti appaiono le motivazioni, per 3 ordini di motivi.
Il primo attiene alla richiesta di rinvio alle Sezioni Unite. L’Ordinanza di rimessione ha sottolineato che l’evoluzione normativa (“dalla Relazione al Codice civile del 1942 fino alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE”) e anche la disciplina legislativa sopravvenuta (segnatamente, l’art. 1, comma 3, del Dlgs. n. 175/2016), seppure inapplicabile alla fattispecie rationetemporis, consente di fondare in modo non equivoco l’assoggettamento di qualsiasi Società a partecipazione pubblica alle norme generali del diritto privato (salvo specifiche deroghe non riguardanti la fattispecie de qua).
Il secondo perché la Sentenza n. 20684/2018, nell’esame dei modelli di gestione dei “servizi pubblici locali”, ha affermato: “una tale disciplina [quella dell’Azienda speciale] non ha visto ulteriori significative evoluzioni (se non, di riflesso e quanto a determinate categorie di contratti, quelle indotte dalla disciplina sui contratti pubblici, di cui al Dlgs. n. 163 del 2006 e, poi, al Dlgs. n. 50 del 2016, in materia di contratti di esecuzione di lavori, di fornitura di prodotti e prestazione di servizi), a differenza di quelle costanti del regime, contiguo, delle Società a partecipazione pubblica, in cui l’attività a rilevanza imprenditoriale gestita dall’Ente pubblico tende ormai ad equipararsi per quanto più possibile a quella gestita dai privati (Casszione, Sezioni Unite, Ordinanza 1° dicembre 2016, n. 24591): evoluzioni culminate nel Dlgs. 19 agosto 2016, n. 175 (‘Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica’, emendato dal Dlgs. 16 giugno 2017, n. 100, recante ‘Disposizioni integrative e correttive al Decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica»), che ha completamente ed in modo almeno tendenzialmente organico riscritto il regime della forma di gestione più simile a quella prevista direttamente dal Codice civile”.
Il terzo motivo attiene al punto seguente: “È così la natura imprenditoriale dell’attività istituzionalmente svolta a connotare la forma -normalmente libera – dei negozi posti in essere nello svolgimento ed in estrinsecazione di quella (e, quindi, non necessariamente determinando l’applicazione della disciplina privatistica sotto ogni altro aspetto, soprattutto quanto ai rapporti interni o con l’ente di riferimento, ovvero a fini di responsabilità verso l’ente locale e di giurisdizione contabile in luogo di quella ordinaria), senza propagazione o estensione delle garanzie volte più specificamente alla disciplina delle attività prive di quella stessa preminente rilevanza imprenditoriale od economica e che, se non altro descrittivamente, possono indicarsi come espressione di potestà autoritative. Può pertanto concludersi – così superato l’originario unico esplicito precedente di legittimità sopra ricordato (Cassazione, Sentenza 23 aprile 2014, n. 9219) ed affermato espressamente il principio di diritto a definizione della questione di massima di particolare importanza rimessa a queste Sezioni Unite – che, in dipendenza della natura imprenditoriale dell’attività svolta dall’azienda speciale di ente territoriale e della sua autonomia organizzativa e gestionale rispetto all’ente di riferimento, l’Azienda stessa, pur appartenendo – se non altro a diversi ed ulteriori fini e rimanendo soggetta ai controlli ed alle altre forme di funzionalizzazione agli scopi istituzionali dell’Ente di riferimento espressamente previsti – al sistema con il quale la Ppubblica Amministrazione locale gestisce i servizi pubblici che abbiano per oggetto produzioni di beni ed attività rivolte a soddisfare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, non può qualificarsi, ai fini della normativa sulla forma dei contratti di cui agli artt. 16 e 17 del Rd. 18 novembre 1923, n. 2440, Pubblica Amministrazione in senso stretto; con la conseguenza che per i suoi contratti, salva l’applicazione di speciali discipline per particolari categorie, non è imposta la forma scritta ad substantiam, né sono vietate la stipula per factaconcludentia o mediante esecuzione della prestazione ex art. 1327 del Codice civile, ma vige, al contrario, il principio generale della libertà delle forme di manifestazione della volontà negoziale”.
Sul punto non può che concludersi che per gli Organismi di gestione dei servizi pubblici posti in essere dagli Enti Locali, a prescindere dalla loro natura pubblica o privata, non vi è una estensione applicativa delle disposizioni di legge che attengono ai soci Enti pubblici: ciò vale evidentemente – a maggior ragione – per le Società “in house” che gestiscono “servizi pubblici locali”.
4.5 La dismissione totale della partecipazione sono atti di diritto privato
La Sezione V del Consiglio di Stato ha chiarito che la scelta dell’Ente pubblico di dismettere l’intero pacchetto pubblico costituisce una c.d. “scelta a valle” e cioè una scelta concernente l’utilizzo del modello societario e le relative controversie rientrano nella giurisdizione del Giudice ordinario.[16]
Infatti, con una tale operazione, il soggetto pubblico si ritrae completamente dalla vicenda lasciandovi solo soggetti privati, per cui non si pongono problemi di selezione pubblicistica di un socio destinato a usufruire della collaborazione privilegiata con il soggetto pubblico, come accade invece nella fase iniziale di scelta del partner privato.
A tale conclusione conduce anche la disciplina contenuta nell’art. 1 del Decreto-legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito in Legge 30 luglio 1994, n. 474. La disposizione detta una disciplina che – sebbene in alcuni suoi profili applicativi non trovi diretta applicazione alle Società a partecipazione pubblica locale (in particolare, nella parte in cui prevede che le modalità di alienazione, per ciascuna Società, vengano determinate con Dpcm.) – esprime tuttavia la regola (valevole per tutte le Società a partecipazione pubblica, anche di natura non statale), secondo cui la dismissione di quote azionarie pubbliche non è soggetta alle norme sull’evidenza pubblica, e nemmeno a quelle sulla contabilità generale dello Stato, risolvendosi in un’operazione che l’Ente pubblico pone in essere con modalità privatistiche, dovendosi soltanto attenere ai generali principi di trasparenza e non discriminazione.
Ne risulta confermato quindi che la dismissione della partecipazione costituisce atto che i soci pubblici compiono iure privatorum anche se l’Ente pubblico abbia, come nel caso di specie, deciso di fare ricorso ad una procedura selettiva che presenta tutte le caratteristiche formali di una vera e propria “gara pubblica”, visto che tale scelta, non imposta dal Legislatore, costituisce un mero “autovincolo” e, come tale, non incide sul riparto della giurisdizione.
Con l’emanazione del Tusp si dovranno valutare gli arresti della giurisprudenza sopra riportati alla luce delle disposizioni contenute nell’art. 10 del predetto compendio normativo, con specifico riferimento al comma 2, che recita così: “l’alienazione delle partecipazioni è effettuata nel rispetto dei principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione. In casi eccezionali, a seguito di Deliberazione motivata dell’Organo competente ai sensi del comma 1, che dà analiticamente atto della convenienza economica dell’operazione, con particolare riferimento alla congruità del prezzo di vendita, l’alienazione può essere effettuata mediante negoziazione diretta con un singolo acquirente. E’ fatto salvo il diritto di prelazione dei soci eventualmente previsto dalla legge o dallo statuto.” Non sfugge che viene dato specifico risalto alle motivazioni economiche che consentono la negoziazione diretta nonché il riconoscimento del diritto di prelazione da parte degli altri soci ove dovrebbero essere ricompresi – per dare senso compiuto al sistema – anche altri diritti di preferenza degli altri soci.
- La competenza del Giudice contabile
Con l’art. 12 del Tusp si è sedimentato l’assetto delle competenze del Giudice contabile in materia di Società partecipate da Pubbliche Amministrazioni, recependo in massima parte l’orientamento della Cassazione Sezioni unite.
Si ricorda che la materia ha avuto almeno 3 momenti salienti:
– la Sentenza della Cassazione SezioniUnite 19 dicembre 2009, n. 26806, che rigettava il riconoscimento della competenza del Giudice contabile in quanto i fatti di mala gestio compiuti dagli Amministratori di Società si riflettevano direttamente sul patrimonio delle stesse; patrimonio diverso e distinto da quello dell’ente socio e soprattutto patrimonio di natura privata. Ne conseguiva che il danno non poteva che essere risarcito alla stessa Società;
– l’art. 16-bis del Dl. n. 248/2007 (“Responsabilità degli Amministratori di Società quotate partecipate da Amministrazioni pubbliche”), introdotto dalla Legge di conversione n. 31/2008, che recita che, “per le Società con azioni quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre Amministrazioni o di Enti pubblici, inferiore al 50%, nonché per le loro controllate, la responsabilità degli Amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del Giudice ordinario. Le disposizioni di cui al primo periodo non si applicano ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della Legge di conversione del presente Decreto”. La dottrina ritiene la norma in perfetta linea con il disposto dell’art. 103 della Costituzione e da ciò fa discendere una interpretazione immediatamente precettiva che sancisce la generalità della giurisdizione contabile.[17] L’interpretazione di detta norma autorizzava alcuna dottrina a ritenere riconosciuta la giurisdizione concorrente al Giudice contabile[18];
– la Sentenza della Cassazione Sezioni Unite n. 26283/2013, che ha introdotto la giurisdizione del Giudice contabile in via derogatoria ai principi affermati dalla Suprema Corte per il patrimonio leso di una Società “in house”.
- Le diverse azioni di responsabilità previste dal Codice civile
Il Codice civile prevede la specifica disciplina delle azioni di responsabilità contro gli Amministratori di Società che hanno causato un danno patrimoniale per fatti a loro imputabili:
- nei confronti delle Società (art. 2392 del Cc. e art. 2393-bis del Cc.);
- nei confronti dei creditori sociali (art. 2394 del Cc.);
- nei confronti del singolo socio (art. 2395del Cc.).
Trattasi di azione risarcitoria finalizzata al ristoro del danno subìto a favore del danneggiato, e se da un lato viene ricompresa nell’ambito di applicabilità della disciplina ex artt. 2392 e 2393 del Cc. anche la violazione di doveri anche solo indirettamente collegati all’incarico quale ogni manchevolezza nell’esplicitazione di questa, sia questa dolosa o colposa, per altro verso il semplice defaulteconomico o risultati negativi della gestione non determinano di per se una responsabilità in capo all’Organo amministrativo. Infatti, le scelte di gestione imprenditoriale, imponendo una valutazione di opportunità e convenienza, attengono all’ambito della discrezionalità e non possono costituire oggetto del giudizio del Giudice in relazione al principio della insindacabilità nel merito delle scelte gestorie (“Business JudmentRule”).[19]
La disciplina si applica agli Amministratori, in quanto soggetti a cui la legge attribuisce la funzione gestoria e la connessa responsabilità per gli atti compiuti in rappresentanza della Società amministrata. Pur trattandosi di responsabilità contrattuale, essa non riguarda in via diretta i dipendenti, che notoriamente nelle Società di capitali non hanno poteri di gestione o di rappresentanza previste per legge.
L’art. 2394 del Codice civile disciplina l’azione di responsabilità legittimando l’Assemblea dei soci, mentre nell’art. 2393-bis,4 a tutela delle minoranze, l’azione è promossa dai soci con uno schema tipico di legittimazione straordinaria (sostituzione processuale) ovvero dell’azione surrogatoria.
Per una più puntuale analisi delle sostanziali differenze fra l’azione di responsabilità per danno previste dal Codice civile e quelle invece azionabili dal Giudice contabile, si rinvia alla Sentenza della Cassazione Civile n. 519/2010.
5.2 La competenza del Curatore fallimentare
L’art. 146 della “Legge Fallimentare” stabilisce che sono esercitate dal Curatore, previa autorizzazione del Giudice delegato sentito il Comitato dei creditori, le azioni di responsabilità contro gli Amministratori, i componenti gli Organi di controllo, i Direttori generali e i Liquidatori.
Secondo un orientamento, il Curatore del fallimento della Società è legittimato anche all’azione di responsabilità verso gli Amministratoriex art. 2491 del Cc.[20]; in quest’ottica, si è affermato che l’autorizzazione del Giudice delegato all’esperimento dell’azione di responsabilitàex art. 2932 del Cc. consente al Curatore di esercitare anche l’azione ex art. 2449 del Codice civile[21].
Pertanto, il Curatore revoca gli Amministratori della Società fallita, nominati in via diretta dai soci pubblici ai sensi del predetto art. 2449 del Cc., sostituendosi quindi a loro.
5.3 L’art. 12 del Tuel ed il danno al patrimoniale recato alla Società “in house” e quello all’Ente socio
In merito all’art. 12[22], quale fonte novellata della giurisdizione contabile in materia di Società“in house”, la dottrina rileva le seguenti caratterizzazioni:
– la norma riguarda l’assoggettamento alla giurisdizione delle Corte dei conti e quindi il riconoscimento di una responsabilità, non solo in capo agli Amministratori, ma anche in capo ai Dirigenti delle Società, cosi come peraltro prevedeva la legge delega;
– nel comma 1 si precisa che viene fatta salva la giurisdizione contabile rispetto la Società“in house” “per il danno erariale”, lasciando intendere che anche per la Società“in house” sia configurabile un danno non erariale.
La Corte dei conti ha da sempre avuto una vis espansiva nel considerare danno al patrimonio dell’Ente socio, tanto i c.d.“danni diretti” che i “danni indiretti” imputabili all’agire degli Amministratori delle Società “in house”.
Autorevole dottrina ha presentato uno specifico decalogo distinguendo fra danno diretto e danno indiretto[23]; tuttavia, è risultato evidente che per la prassi e per la giurisprudenza della Corte dei conti non vi sono distinzioni di sostanza, tali da non giustificare la competenza del Giudice contabile, fra danno diretto o danno indiretto al patrimonio pubblico[24]. Emblematica in tal senso la interpretazione della Corte dei conti che ritiene che il Procuratore possa agire direttamente sugli Amministratori della Società che hanno fatto un uso improprio delle carte di credito nella evidente convinzione che le casse sociali siano in tutto denaro pubblico, a dispetto di una autonomia giuridica e patrimoniale perfetta delle Società pubbliche.
5.4 Competenza esclusiva, concorrente, in surroga della Corte dei conti: la dottrina
Secondo quanto osservato circa la portata letterale dell’art. 12 emerge, da un lato, una supposta ipotesi di danno non erariale perseguibile anche contro gli Amministratori della Società“in house”, e dall’altro lato, il sintagma “fatta salva giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale causato dagli Amministratori e dipendenti della Società‘in house’” alluderebbe a una competenza esclusiva.
La dottrina si divide fra giurisdizione concorrente e surrogatoria mentre le procure delle Corte dei conti – come nel caso esaminato dalla Sentenza delle Sezioni Unite in commento – propendono per una competenza esclusiva.
L’autorevole dottrina[25], che propende per la giurisdizione concorrente affronta – con soluzione positiva – anche la questione della potenziale duplicazione del risarcimento del danno: uno per il risarcimento a favore delle Società per le azioni di responsabilità azionate in base alle disposizioni civilistiche, e l’altro a risarcimento esclusivamente del patrimonio pubblico per l’azione attivata dalla Magistratura contabile.
“Qualora il danno ‘cagionato alla Società’ si traduca anche in un ‘danno erariale’ del socio pubblico, patrimoniale o non patrimoniale, come definito dall’art. 12 Tusp, l’esercizio dell’azione contabile potrà così concorrere con le altre azioni poste a garanzia dei soci e dei creditori sociali previste dal Codice civile, come avviene per altre fattispecie di responsabilità patrimoniale devolute alla giurisdizione contabile. Ed invero la legittimazione straordinaria del Pubblico ministero contabile, garantita dalle diverse disposizioni succedutesi nel tempo in tema di contabilità pubblica, non può precludere alle Società pubbliche, danneggiate da attività dei propri dipendenti, di agire in sede civile per risarcimento dei danni, ovvero, nei casi di reati, di costituirsi parte civile nei relativi procedimenti penali. Tuttavia, il ‘Testo unico sulle Società pubbliche’ ha limitato l’azione del Pubblico ministero contabile volta ad ottenere il risarcimento del danno erariale sicché detta azione potrà avere ad oggetto solo la reintegrazione del patrimonio del socio pubblico danneggiato o il risarcimento del danno all’immagine. La giurisdizione concorrente, del resto, non genera, né il discredito dell’Ente, né un aggravio al regime delle responsabilità, né il rischio di una doppia condanna in capo agli Amministratori delle Società pubbliche, eventualmente chiamati a risarcire il danno cagionato al patrimonio dell’Ente, una prima volta dinanzi alla Corte dei conti e successivamente davanti al Giudice civile, come paventato da parte della dottrina, perché, in disparte la considerazione che le 2 azioni possono rivolgersi contro soggetti diversi (passivamente legittimati rispetto ad un’azione ma non rispetto all’altra), in sede esecutiva si dovrà sempre tener conto di quanto eventualmente già pagato dal responsabile del nocumento patrimoniale per effetto di Pronunce di altri Organi giurisdizionali. La concorrenza tra l’azione contabile e quella civile non dà luogo pertanto ad alcuna duplicazione di responsabilità per mala gestio in capo agli Amministratori delle Società pubbliche, perché ha obiettivi e finalità differenti, avendo riguardo, la prima essenzialmente alla tutela del patrimonio ‘pubblico’, in ossequio ai canoni, di rilievo costituzionale, dell’autonomia e dell’indipendenza, ma indirettamente garantisce anche gli azionisti privati i quali nelle grandi Società pubbliche difficilmente riuscirebbero ad esercitare altrimenti l’azione di responsabilità contro gli Amministratori”.
Diverse le argomentazioni della dottrina[26] che invece riterrebbe applicabile un’azione surrogatoria del Giudice contabile in luogo del socio pubblico inerte. “C’è poi da chiedersi se un’ulteriore soluzione idonea a soddisfare le esigenze di tutela delle finanze pubbliche senza interferire negativamente con il dispiegarsi delle azioni riparatorie in sede civile possa essere fornita dalla norma – trasfusa ora nel recentissimo ‘Codice di Giustizia contabile’ — secondo cui ‘il Pubblico ministero, al fine di realizzare la tutela dei crediti erariali, può esercitare tutte le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste dalla procedura civile, ivi compresi i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale di cui al Libro VI, Titolo III, Capo V del Codice civile’ (art. 73, Dlgs. n. 124/2016)[27]. Fra i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale vi è infatti, come sappiamo, l’azione surrogatoria. E, secondo un’interpretazione di recente emersa in giurisprudenza, la norma in esame abiliterebbe la Procura contabile ad agire contro i responsabili del danno — Amministratori, componenti dell’Organo di controllo o dipendenti — esercitando in via surrogatoria le ordinarie azioni di responsabilità previste nel Codice civile, là dove queste non siano esercitate dal socio pubblico.[28]”
5.5 La competenza concorrente: la Pronuncia della Cassazione
La Sentenza delle Sezioni Unite in commento dichiara la competenza concorrente fra azione di responsabilità prevista dal Codice civile e quella contabile. Tale interpretazione dipende da una valutazione di ordine generale in base al quale il Collegio “ritiene di dover rispondere nel senso della possibilità del concorso fra la giurisdizione ordinaria e quella contabile, in quanto, come già affermato nella richiamata Decisione n. 26806/2009, laddove sia prospettato anche un danno erariale, al di là di una semplice interferenza fra i 2 giudizi, deve ritenersi ammissibile la proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio (cfr. anche Cassazione, Sezione Unite, Sentenza 7 gennaio 2014, n.63; Cassazione, Sentenza 14 luglio 2015, n. 14632, in cui si sottolinea l’insussistenza della violazione del principio del ne bis in idem, stante la tendenziale diversità di oggetto e di funzione fra i 2 giudizi)”.
Tale principio è confermato anche con l’emanazione dell’art. 12 del Tusp in quanto la Sentenza in commento riferisce che “la specifica attribuzione alla giurisdizione della Corte dei conti delle azioni relative al danno erariale lascia chiaramente intendere la configurabilità di un danno non erariale, al cui ristoro, soprattutto con riferimento alla posizione dei creditori sociali, non è idonea, e pertanto non può avere alcuna efficacia ostativa alle azioni proponibili davanti al Giudice ordinario, l’azione concernente la responsabilità contabile. Deve infine rilevarsi che anche in relazione alla domanda proposta nei confronti del solo Comune di Palermo ai sensi dell’art. 2497 del Cc., deve essere affermata la giurisdizione del Giudice ordinario, sia poiché, come correttamente rilevato dal Procuratore generale, la subordinazione gerarchica degli Amministratori della Società‘in house’ non è inconciliabile con l’alterità della Società controllata, sia perché anche in tale ipotesi, come espressamente prevede la norma teste richiamata, la responsabilità è sancita, oltre che nei confronti dei soci, anche dei creditori sociali ‘per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della Società’”.
Dall’insegnamento della suprema Corte emerge che, a fronte di azioni di responsabilità azionabili entrambe – quella civilistica e quella di conto – data la diversa funzione e scopo ai fini del ripristino del danno – uno a favore del patrimonio sociale e quindi dei terzi creditori e l’altro a favore dell’Erario – entrambe le azioni possono agire in concorso fra loro. In ragione delle diverse funzioni e scopi, la concorrenza di entrambe le azioni non costituisce violazione del principio del “ne bis in idem”.
5.6 La responsabilità dell’Ente Locale socio nella crisi delle Società a controllo pubblico
Nell’ambito della responsabilità del socio P.A. nella crisi della Società a controllo pubblico si evidenziano diversi livelli di responsabilità: nel proseguo se ne analizzeranno i più rilevanti.
5.6.1. La responsabilità erariale introdotta dall’art. 12 del Tusp
Il titolo della norma fa riferimento espresso alla responsabilità degli Enti partecipanti. La norma si articola su 2 diversi piani attraverso i quali viene riconosciuta la competenza del Giudice contabile. Il primo piano,contenuto nel comma 1 primo periodo, attiene alle Società“in house” e, recependo orientamenti della Cassazione a Sezioni Unite risalenti, estende il giudizio di conto per i danni causati dagli Amministratori e dai dipendenti della Società“in house”. Nulla aggiunge in tema di responsabilità dell’Ente socio. Nuova invece la fattispecie di competenza del Giudice contabile prevista dalla seconda parte del periodo primo e che definisce il danno: “(…) patrimoniale o non patrimoniale, direttamente subìto dagli Enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli Enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione“.
Di primo acchito si deve rilevare che il valore della partecipazione deve desumersi dal conto del patrimonio del bilancio dell’Ente LocaleSocietà e che da prassi, contenuta nei Principi contabili allegati al Dlgs.n. 118/11(“Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli Enti Locali e dei loro organismi, a norma degli artt. 1 e 2 della Legge n. 42/09”), deve valutarsi al proporzionale valore del patrimonio netto. È noto che il patrimonio netto della Società è rappresentato dalla somma algebrica del valore del capitale sociale cui si sommano le riserve e si aggiunge il risultato di esercizio positivo o negativo. Appare dunque che ogni variazione negativa del patrimonio netto debba incidere sulla predetta valutazione e se determinata da un comportamento doloso o con colpa grave ne comporta l’emersione del danno da imputare in capo ai soci.
Ora occorre tuttavia il nesso di causa ed effetto fra comportamento del socio e danno al valore della partecipazione nella Società.
Trattasi un comportamento attivo o meramente omissivo e “l’illecito dagli Amministratori pubblici costituisce una species del genus illecito erariale che resta atipico, comune, a condotta libera, ove consti una relazione funzionale tra un soggetto e la P.A.”.
“I danni patrimoniali direttamente sopportati dall’Ente pubblico socio, come è stato ricordato, sono quelli che possono derivare:
- a) dal mancato raggiungimento dei risultati di pubblica utilità per cui la Società è stata costituta con conseguente inutile dispendio di risorse pubbliche, ovvero dell’abuso radicale dello strumento societario in contrasto con le finalità previste dall’art. 4 del Tusp.
- b) dai versamenti in conto capitale a favore della Società per ripianare le perdite;
- c) dall’accantonamento nel ‘Fondo vincolato’ già previsto dall’art. 1, comma 551, della Legge n. 147/2013 ed ora dall’art. 21 del Tusp, di importi corrispondenti al risultato negativo di esercizio non immediatamente ripianato;
- d) dalla necessità di effettuare prestiti all’Ente partecipato non remunerativi o non restituiti;
- e) dalla necessità di fornire garanzie alle operazioni di finanziamento da parte di terzi (Banche,Società finanziarie, ecc.);
- f) dalla svalutazione della partecipazione sociale derivante dalle condotte degli Amministratori che abbiano pregiudichino seriamente il patrimonio o determinato un ‘downgrading’ della Società;
- g) dalla perdita integrale del capitale investito nella Società (cosiddetto ‘danno da dissipazione della partecipazione sociale’);
- h) dalla lesione/compromissione dell’immagine dell’Ente pubblico finanziato (senza più i limiti previsti dall’art. 17, comma 30-ter, Dl. n. 78/2009, abrogato dal Dlgs. n. 174/2016.
I danni patrimoniali sopra richiamati (non quello all’immagine), come già ricordato risulteranno dal bilancio consolidato dell’Ente pubblico socio (la cui presentazione è divenuta obbligatoria a partire dall’esercizio 2015, in base a quanto previsto dall’art. 11 del Dlgs. n. 118/2011) come semplici ‘perdite delle Società partecipate’ ed anche come ‘ripianamento delle perdite degli Organismi partecipati’ o ‘stanziamenti sul ‘Fondo speciale’”.
Gli accennati danni erariali saranno imputabili in primo luogo agli Amministratori dell’Ente controllante (………..) qualora costoro li abbiano cagionati anche omettendo di esercitare, con dolo o colpa grave, i necessari poteri di indirizzo o di vigilanza sulla gestione, ma con essi potrà concorrere la responsabilità degli Amministratori della Società. Trattandosi di danno erariale l’azione di responsabilità sarà esercitata dal Procuratore della Corte dei conti dinanzi alla magistratura contabile ai sensi dell’art. 86 del ‘Codice della Giustizia contabile’, approvato con il Dlgs. n. 174/2016.”[29]
L’emersione del danno avverrà per effetto della approvazione del bilancio consolidato fra conto consuntivo dell’Ente socio e bilancio della Società controllata e pertanto, secondo autorevole dottrina, le variazioni del patrimonio della Società partecipata si riflettono sugli esiti del bilancio consolidato dell’Ente.[30]
5.6.1.1 Responsabilità in caso di omissione da parte degli Amministratori dell’attivazione del “Piano di prevenzione del rischio di crisi aziendale”ex art. 6 del Tusp
La norma contenuta nell’art. 6, comma 2, dispone un nuovo obbligo in capo agli Amministratori di Società a controllo pubblico e precisamente il seguente: “le Società a controllo pubblico predispongono specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale e ne informano l’Assemblea nell’ambito della Relazione di cui al comma 4.” A sua volta, il comma 4 dispone che “gli strumenti eventualmente adottati ai sensi del comma 3 sono indicati nella ‘Relazione sul governo societario’ che le Società controllate predispongono annualmente, a chiusura dell’esercizio sociale e pubblicano contestualmente al bilancio d’esercizio”.
La dottrina sul punto ha avuto modo di osservare che,“nonostante la norma faccia riferimento ad un dovere dell’Organo amministrativo, si sottende ad un vero e proprio modello di governance che implica la cooperazione dell’Organo di controllo sia dell’Assemblea che a mente della stessa norma deve essere informata sugli specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale. Ne consegue che al socio spetta quantomeno un dovere di vigilanza e di giudizio sull’adeguatezza del programma, che si sposta poi fino al punto di andare oltre la semplice vigilanza nelle Società‘in house’ ove il socio eserciti un ‘controllo analogo’”[31].
5.6.2. La responsabilità per violazione del divieto di “soccorso finanziario” e le modalità di intervento di risanamento della Società consentite dall’art. 14 del Tusp
5.6.2.1 Il principio del ‘soccorso finanziario’ proposto dalla Corte dei conti
Allorquando gli Enti Locali scelgono di gestire “servizi pubblici” (o anche “strumentali”) attraverso lo strumento societario, poiché nel capitale sociale di Organismi esterni affluiscono mezzi finanziari (o patrimoniali) di natura pubblica, particolari doveri e precauzioni incombono nei confronti delle Amministrazioni conferenti. Un principio immanente nell’ordinamento, ricorrente, da rispettare è quello per cui l’attività sociale non deve generare delle perdite che distruggano la ricchezza inizialmente investita, perseguendo la “efficienza gestionale”. Pertanto, la “scelta di ricorrere a Organismi strumentali o Societàpartecipate sottintende un presupposto di fondo, il conseguimento di un equilibrio di bilancio, che non arrechi danno economico al patrimonio conferito dall’Ente pubblico socio”.
Il principio del c.d. “divieto di soccorso finanziario” di Organismi a partecipazione pubblica, affermatosi nel corso del tempo da parte della Corte dei conti, è espressione sintetica del vincolo di finanza pubblica fissato in origine dall’art. 6, comma 19, del Dl. n. 78/2010.
Tale disposizione, prima della sua abrogazione avvenuta a seguito dell’entrata in vigore del Dlgs. n. 175/2016, stabiliva che le Pubbliche Amministrazioni non potevano effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, né rilasciare garanzie, a favore di Società non quotate da esse partecipate che avessero registrato perdite per 3 esercizi consecutivi o nel caso di utilizzo di riserve disponibili per il ripiano di perdite anche in corso d’anno, a meno che il capitale non fosse risultato ridotto di almeno 1/3 e in misura tale da richiedere obbligatoriamente l’intervento di cui all’art. 2447 del Cc. per essere sceso al di sotto del minimo legale.
Ora, il principio del “divieto di soccorso finanziario” è stato disciplinato, con alcune novità, nell’art. 14[32] del delTusp, che per quanto di interesse in questa sede va letto in combinato disposto con l’art. 6, comma 2, del medesimo compendio normativo.
5.6.6.2. L’adempimento dell’allert ex art. 6, comma 2, del Tusp
Qualora emergano, nell’ambito dei programmi di valutazione del rischio di cui all’art. 6, comma 2,[33] uno o più indicatori di crisi aziendale, l’Organo amministrativo della Società a controllo pubblico adotta senza indugio i provvedimenti necessari al fine di prevenire l’aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un idoneo Piano di risanamento exart. 14, comma 2, ed ai sensi dell’art. 14, comma 3, “quando si determini la situazione di cui al comma 2, la mancata adozione di provvedimenti adeguati, da parte dell’Organo amministrativo, costituisce grave irregolarità ai sensi dell’art. 2409 del Cc.”.
La violazione determina anche la possibilità di revoca dei componenti degli Organi amministrativi ed espone gli stessi a responsabilità (nei limiti del danno).
Il dovere di adozione di provvedimenti adeguati è espressamente preveduto dal Legislatore, che si limita ad imporre un obbligo ed un divieto.
Dall’analisi della norma contenuta nell’art. 14 emerge:
- un obbligo: i provvedimenti adeguati devono essere inclusi in un Piano di risanamento. Quindi, i provvedimenti non dovrebbero essere “estemporanei” o imposti dalla sola emergenza del momento, ma vanno inseriti in un Programma funzionale di tipo programmatorio, che deve dare dimostrazione (c.d. “attendibilità delle assunzioni di base”) di impedire, sia che la crisi degeneri in insolvenza, sia ad immunizzarne gli effetti negativi per la Società ed i terzi, sia ad eliminare alla radice le cause della crisi stessa;
- un divieto: “non costituisce provvedimento adeguato, ai sensi dei commi e 2, la previsione di un ripianamento delle perdite da parte dell’Amministrazione o delle Amministrazioni pubbliche socie, anche se attuato in concomitanza a un aumento di capitale o ad un trasferimento straordinario di partecipazioni o al rilascio di garanzie o in qualsiasi altra forma giuridica, a meno che tale intervento sia accompagnato da un Piano di ristrutturazione aziendale, dal quale risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività svolte, approvato ai sensi del comma 2, anche in deroga al comma 5” (art. 14, comma 4).
Elemento centrale dell’intervento del socio pubblico – che per quanto sopra esposto apparirebbe obbligatorio in presenza di un Piano ex art. 14, comma 4 – diviene il Piano di risanamento e secondo quindi la lettura delle disposizioni contenute nell’art. 14, questo produce diversi effetti che coinvolgeranno anche la responsabilità dell’Ente socio.
Si osserva che se tali Piani sono inclusi nel Piano di risanamento (anche definito “Piano di ristrutturazione aziendale”), possono essere previsti interventi di ripianamento delle perdite da parte dell’Amministrazione o delle Amministrazioni pubbliche socie, anche se attuati in concomitanza di un aumento di capitale o di un trasferimento straordinario di partecipazioni o al rilascio di garanzie o in qualsiasi altra forma giuridica. Diversamente in mancanza del Piano di risanamento, le Amministrazioni pubbliche socie non possono procedere ad interventi di “ripianamento delle perdite” in favore di Società a controllo pubblico in crisi; l’eventuale violazione di questo divieto determina, evidentemente, anche responsabilità erariali a carico dei soggetti responsabili per la potenziale “dissipazione” di risorse pubbliche.[34]
In conclusione, dell’intervento di sostegno da parte dell’Amministrazione pubblica (attraverso un legittimo superamento del “divieto del soccorso finanziario”) si deve affermare che esso è consentito solo al ricorrere di almeno una delle seguenti condizioni:
- l’intervento sia previsto all’interno di un “Piano di risanamento”, dal quale risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività svolte;
- si sia verificata la perdita del capitale sociale ai sensi degli artt. 2447 e 2482-terdel Cc.;
- l’intervento sia autorizzato con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri ed avvenga al fine di salvaguardare la continuità nella prestazione di servizi di pubblico interesse, a fronte di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico e la sanità.
5.6.3 La responsabilità da abuso del potere di eterodirezione previsto dall’art. 2497 del Codice civile con specifico riferimento all’esercizio del “controllo analogo” nelle Società “in house”
Il “controllo analogo” è elemento costitutivo della Società“in houseproviding”.
Esso è desumibile dallo Statuto della Società e, come si è avuto modo di rilevare più sopra, non sono ammesse situazioni di “in house” di fatto che non siano espresse nello Statuto sociale.
Il Tusp ci fornisce le seguenti definizioni:
– art. 2, comma 1, lett. c),“controllo analogo”: “la situazione in cui l’Amministrazione esercita su una Società un ‘controllo analogo’ a quello esercitato sui propri servizi, esercitando un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della Società controllata. Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’Amministrazione partecipante”;
– art. 2, comma 1, lett. d), “controllo analogo congiunto”: “la situazione in cui l’Amministrazione esercita congiuntamente con altre Amministrazioni su una Società un ‘controllo analogo’ a quello esercitato sui propri servizi. La suddetta situazione si verifica al ricorrere delle condizioni di cui all’ art. 5, comma 5, del Dlgs. n. 50/2016”.
Attraverso l’esercizio del “controllo analogo” si attua ingerenza del socio nell’attività sociale.
Da altro versante occorre rilevare se le direttive impartite dal socio pubblico possano rilevare ai fini dell’abuso per eterodirezione e determinare, ai sensi dell’art. 2497 Cc., una responsabilità patrimoniale in caso di danno.
A mente dell’art. 2497 del Cc., si considerano eterodirette quelle Società sulle quali gli Enti che,“esercitando attività di direzione e coordinamento di [tali]Società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle Società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste del pregiudizio arrecato alla redditivitàed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionataall’integrità del patrimonio della Società”.
La direzione e coordinamento prescinde dal controllo ex art. 2359 del Codice civile perché è un “quid pluris” rispetto al controllo. Trattasi di situazione che va provata in fatto e non una mera condizione di diritto: emerge dunque che anche la Società sottoposta ad influenza dominate di diritto ex art. 2359, comma 1, punto1), del Codice civile, può dare la prova contraria dell’assenza di eterodirezione.
La eterodirezione si attua tramite la direzione unitaria.
5.6.3.1 La norma di interpretazione autentica
L’art. 2497 del Cc. è stato oggetto di interpretazione autentica contenuta nell’art. 19 del Dl. n. 78/2009.
Sul punto è intervenuto anche un chiarimento del Consiglio nazionale dei Dottori commercialisti, i cui principi sono stati di seguito esposti. La Nota di commento esamina l’art. 19 del Dl. n. 78/2009 (“provvedimento anticrisi”), che prevede che“l’art. 2497, comma 1, Cc., si interpreta nel senso che gli Enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economico finanziaria”. Dalla lettura della norma si evince che, sotto il profilo del soggetto che sottopone a direzione e coordinamento viene prevista espressamente l’esclusione dello Stato, mentre rientrano nella nozione di “Enti” di cui all’art. 2497 del Cc. i soggetti giuridici collettivi per i quali la partecipazione sociale è finalizzata: (i) all’esercizio della propria attività imprenditoriale ovvero; (ii) per finalità di natura economico finanziaria.
Tale distinzione sembra avvalorare la tesi in base alla quale gli Enti pubblici locali (Province e Comuni) non potevano essere sottoposti alle disposizioni dell’art. 2497 del Cc. in quanto svolgono eminentemente fini istituzionali e solo in parte anche attività riconducibili ai criteri dell’impresa.
La norma di interpretazione autentica è più precisa e fa riferimento, sia all’attività imprenditoriale propria che, in alternativa, a finalità di natura economica (conseguire ricavi superiori a costi) che finanziaria (lucrare rendite di natura finanziaria).
La Nota di commento prosegue facendo rilevare che, all’epoca risalente agli anni 2010 e seguenti, l’interpretazione dell’art. 2497 del Cc. alla luce delle novità testé esposte nel caso di Società detenute dagli Enti Locali che ai sensi dell’art. 3, comma 27 e seguenti, della “Legge Finanziaria 2008”, non poteva non considerare che gli Enti Locali erano legittimati a (i) prestare “servizi di interesse generale” nei limiti di competenza dell’Ente Locale socio, ovvero (ii) svolgere “servizi o attività strumentali” per il perseguimento dei fini istituzionali dell’Ente Locale socio, la cui disciplina di riferimento è l’art. 13 del Dl. n. 223/2006 (c.d. “Decreto Bersani”), e doveva quindi conseguire che, sulla base di tale distinzione, così come interpretata anche dalla Corte Costituzionale con la Sentenzan. 326/2008, si distinguevano le partecipazioni comunali in 2 categorie:
- a) le Società che gestiscono “servizi di interesse generale” svolgono un’attività d’impresa;
- b) le Società che prestano “servizi o attività strumentali” per il perseguimento dei fini istituzionali dell’Ente Locale socio, non svolgono un’attività d’impresa ma funzioni amministrative (cd. “Società semi-Amministrazioni”).
Le conclusioni della Nota interpretativa conducevano ad affermare che: (i) qualora l’Ente Locale detenga partecipazioni di categoria a) l’Ente Locale e la sua Società partecipata siano sottoposte a tutta la disciplina degli artt. 2497 e seguenti, del Cc., al pari di ogni altro socio “privato” che esercita attività di direzione e coordinamento sulle proprie controllate; (ii) qualora l’Ente Locale detenga partecipazioni di categoria b) non si applicano le disposizioni dell’art. 2497 del Codice civile.
Da ultimo, in merito alla portata della responsabilità del socio Ente pubblico locale che esercita l’attività di direzione e coordinamento, si deve rilevare che trattasi di responsabilità patrimoniale per risarcire il danno causato agli altri soci e ai creditori delle Società partecipate. Il danno non è risarcibile se si dà dimostrazione del c.d. “interesse compensato”, vale a dire se dall’operazione il “Gruppo Ente Locale”, di cui fa parte la Società partecipata, ha ottenuto un beneficio complessivo. Il comportamento che dà luogo alla responsabilità è l’attività di direzione e coordinamento in violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale attuata per perseguire interessi “imprenditoriali” propri del socio che controlla. La maggior parte della dottrina qualifica la responsabilità ex art. 2497 del Cc. come responsabilità da fatto illecito.
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[1] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, Sentenza 28 settembre 2015 n. 4510: il Consiglio di Stato ha fermamente negato la natura pubblica della Spa, sebbene esercente “in house” un servizio pubblico, ritenendola in ogni caso sottoposta al regime di diritto privato, in quanto le nozioni di “Organismo di diritto pubblico” e di “Impresa pubblica” di cui al Dlgs. n. 163/2006 sono dirette esclusivamente a circoscrivere l’ambito di applicazione della medesima disciplina in tema di appalti pubblici, nonostante la natura formalmente privata degli Enti interessati, in ragione dell’influenza proprietaria e del controllo su di essi esercitato da uno o più soggetti pubblici.
[2] Art. 146 della “Legge Fallimentare”: “gli Amministratori e i Liquidatori della Società sono tenuti agli obblighi imposti al fallito dall’art. 49. Essi devono essere sentiti in tutti i casi in cui la legge richiede che sia sentito il fallito. Sono esercitate dal Curatore previa autorizzazione del Giudice delegato, sentito il Comitato dei creditori:
- a) le azioni di responsabilità contro gli Amministratori [2392, 2393-bis, 2394, 2395 C.c.], i componenti degli Organi di controllo, i Direttori generali e i Liquidatori;
- b) l’azione di responsabilità contro i soci della Società a responsabilità limitata, nei casi previsti dall’art. 2476, comma 7, del Cc.”.
[3] Cfr. E. Codazzi “Le ‘nuove’ Società “in house”: controllo cd. ‘analogo’ e assetti organizzativi tra specialità della disciplina e ‘proporzionalità delle deroghe’”. In VIII Convegno dell’Associazione Italiana dei Professori universitari di diritto commerciale“Orizzonti del diritto commerciale. Il diritto commerciale verso il 2020: i grandi dibattiti in corso, i grandi cantieri aperti” – Roma, 17-18 febbraio 2017:secondo cui “le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di Società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal Codice civile in materia di Società di capitali’) è stata più volte considerata dal Legislatore storico e dalla giurisprudenza norma di ‘interpretazione autentica’, nonché, ‘di chiusura del sistema’: si veda, in particolare, il Parere del Comitato per la legislazione del Senato sul Disegno di legge n. 5389 e Servizio Studi della Camera – Osservatorio legislativo e parlamentare, Elementi di valutazione sulla qualità del testo e su specificità, omogeneità e limiti di contenuto del Decreto legge. Definisce tale disposizione ‘norma di chiusura’ che ‘dovrebbe porre fine a questioni interpretative sul regime speciale o ordinario delle Società di cui alla fattispecie’ Regione Siciliana, Circolare 29 agosto 2012, prot. n. 5444, Questioni applicative nell’ordinamento regionale dell’art.4 del Dl. n. 95/2012, convertito dalla Legge n. 135/2012. In quest’ultimo senso anche Cassazione, Sentenza 13 maggio 2013, n. 11417, in Giur.it., 2013, 1243, che attribuisce a tale norma ‘un significato interpretativo confermativo’; tale Pronuncia è stata ripresa da Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 6 febbraio 2014, n. 2762, e Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 30 ottobre 2013, n. 24524, entrambe reperibili su www.Cassazione.it; nel senso di rinvenire in tale disposizione una conferma in senso privatistico della Società in mano pubblica, anche Cassazione, Sezione Unite, Sentenza 25 novembre 2013, n. 26283, cit.; da ultimo in tal senso, Cassazione, Sezione VI, Sentenza 4 gennaio 2016, n. 1, in www.iusexplorer.it, ; nello stesso senso, tra le altre, Cassazione, Sezione I, Sentenza 15 ottobre 2013, n. 23381, in Giur.comm, 2014, II, 1011 e seguenti; Tribunale Pescara, Sentenza 14 gennaio 2014, in www.dirittodeiservizipubblici.it, 2014, secondo cui la legge non prevede “alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle Società di capitali, per le Società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituti dall’ente locale’, ribadendo come il contemperamento tra tutela dei creditori e necessità di efficiente gestione non vada ricercato in istituti di privilegio tipicamente previsti per gli enti pubblici.”
[4] Perfetti, Maltoni, Goisis, Antonioli, “Manifesto per una riforma di sistema delle società a partecipazione pubblica”: “Esigenze e proposte. (…) In secondo luogo, nell’ambito di detto riordino della disciplina in tema di Società pubbliche, occorre dare piena attuazione al principio, già codificato dall’art. 4, co. 13, Dl. n. 95 del 2012, secondo cui tutte le disposizioni di carattere speciale si interpretano nel senso che al di fuori di quanto espressamente stabilito, si applica la disciplina del Codice civile sulle Società di capitali”.
[5] Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, Sentenza n. 230 del 12 settembre 2018.
[6] Cfr. Cassazione civile a Sezioni Unite, con l’Ordinanza n. 19108/2018 che, in sede di regolamento preventivo, ha dichiarato il difetto di giurisdizione della Corte dei conti su una vicenda riguardante i Responsabili tecnici e i loro ausiliari dipendenti di una Società di “Trasporto pubblico locale” della Regione Abruzzo. Infatti, nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, ovvero una Società interamente pubblica, è stato analizzato lo Statuto scrutinando l’effettiva disciplina del “controllo analogo”, per arrivare a negare una relazione di “in houseproviding” tra socio e Società, in quanto non era soggetta a un “controllo analogo” a quello esercitato dall’Ente pubblico sui propri Uffici, giacché lo Statuto “prevedeva che i poteri di gestione dell’impresa, al pari dei poteri di vigilanza sulla medesima gestione e sulla contabilità, venissero attribuiti ai competenti Organi sociali secondo criteri del tutto corrispondenti a quelli di regola previsti nelle normali Società azionarie di diritto privato”.
[7] I beni demaniali infatti si distinguono in: (i) beni demaniali che sono tali per il solo fatto di essere contemplati dall’art. 822, comma 1, C.c.: il lido del mare, le spiagge, le rade, i porti e così via “appartengono allo Stato e fanno patte del demanio pubblico“. E, dunque, sono necessariamente ed esclusivamente demaniali: nessuno, ad eccezione della mano pubblica, può esserne proprietario – c.d., per l’appunto, “demanio necessario” o “beni riservati“; (ii) beni demaniali che fanno parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato (art. 822, comma 2, C.c.) o agli Enti Locali (art. 824 del C.c.): i beni indicati dall’art. 822, comma 2, C.c. sono demaniali solo se appartengono allo Stato o ad altri Enti territoriali. Ciò implica che quei beni possono non appartenere alla mano pubblica e, quindi, non essere demaniali – è il c.d. “demanio accidentale“. Fra i beni indicati dall’art. 822, comma 2, C.c. figurano gli “acquedotti“. Nel Codice civile gli acquedotti (parte principale della rete idrica) possono essere beni pubblici (e, se lo sono, sono beni demaniali), ma non è necessario che lo siano. Tale regime è confermato dall’art. 143, comma 1, Dlgs. n. 152/2006: “gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica, fino al punto di consegna e/o misurazione, fanno parte del demanio ai sensi degli artt. 822 e seguenti del Codice civile e sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge“. In altri termini, solo se pubbliche le reti idriche sono beni demaniali. Se ne trae, a contrario, che le reti idriche possono non essere demaniali. Tale conclusione è ulteriormente confermata dall’art. 144, comma 1, Dlgs. n. 152/2006 che, con riguardo a “tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo” sancisce incondizionatamente che esse “appartengono al demanio dello Stato“, così includendole nel demanio necessario. Si deve concludere che anche alla luce dell’art. 142 del Dlgs. n. 152/2006, la rete idrica è un bene demaniale solo se appartiene allo Stato o agli Enti Locali, ossia è un bene del demanio accidentale. I conferimenti degli acquedotti di proprietà degli Enti Locali, pur appartenendo al c.d“demanio accidentale” erano trasferibili in proprietà alle Società indicate dall’art. 113, comma 13, del Tuel, che viene letto come(i) la conferma che le Società di reti sono una speciesdi Società “in house”, con la conseguenza che non v’è alcuna deroga al regime demaniale (dal momento le Società “in house” sono articolazioni organizzative dell’ente o degli enti che le costituiscono; (ii) rappresenta una deroga all’inalienabilità delle reti, ove queste siano beni demaniali, che implica una “sdemanializzazione di fatto” delle reti idriche effettivamente conferite nelle Società delle reti. Il trasferimento della rete idrica ad una Società distinta dai Comuni che ne sono soci ha cagionato il venir meno della demanialità della rete: la rete idrica non appartiene più allo Stato o ad un ente locale. Da qui la “sdemanializzazione di fatto“, cioè il venir meno del vincolo di inalienabilità delle reti idriche per effetto del trasferimento ad un ente non contemplato dagli artt. 822, comma 2, e 824 del Codice civile. Pertanto, la circolazione delle reti idriche trasferite alle società di reti ai sensi dell’art. 113, comma 13, Tuel, è divenuta libera, ferma restando la funzionalizzazione di quei beni all’uso pubblico (la distribuzione dell’acqua ai cittadini dei Comuni interessati).L’art. 113, comma 13, Tuel, è stato poi implicitamente abrogato dall’art. 23-bis, comma 11, Dl. n. 112/2008 (come ritenuto dalla Corte Costituzionale, Sentenza 25 novembre 2011, n. 320). L’abrogazione, a differenza dell’annullamento, ha efficacia ex nunc. La norma abrogata perde efficacia per il futuro, a partire dal momento in cui entra in vigore la norma che ne ha disposto l’abrogazione. Nel nostro caso, l’art. 113, comma 13, Tuel, è divenuto inefficace a partire dal 2008.
[8] La dottrina ritiene che la sentenza Cassazione, Sezione Unite, n. 7759/2017, “ anche con espresso riguardo alla novella [art. 19 del Tusp], ha desunto ‘l’intenzione del Legislatore di non obbligare le Società a controllo pubblico ad indire pubblici concorsi’; così presumibilmente valorizzando la limitazione del richiamo ad un segmento soltanto della disciplina di cui all’art. 35 del Tupi, (….) ed in particolare il perdurante mancato rinvio a quel comma 1 che costituisce, esso sì, la vera fonte, in uno con l’art. 97 della Costituzione, dell’obbligo concorsuale ai fini dell’assunzione con contratto di impiego pubblico.” In Filippo Maria Giorgi, “Il regime del concorso non è obbligatorio ex lege nelle società in house“ in “Il Lavoro nella giurisprudenza”, n. 8-9 del 2017.
[9]Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza 9 gennaio 2018, n. 271:“13. La Società di capitale con partecipazione pubblica, infatti, non muta la sua natura di soggetto privato solo perché’ un Organismo pubblico, sia pure in forma di società legale come l'(omissis) Spa, ne possegga in tutto o in parte le azioni, in quanto il rapporto tra Società e soggetto pubblico è di assoluta autonomia non essendo a quest’ultimo consentito incidere unilateralmente sulla svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della Società di capitale mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina pubblica presenti negli organi della Società. Del resto, la Società appaltatrice non perde la qualità imprenditoriale perché’ le norme speciali, volte a regolare la costituzione della Società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non possono incidere sul modo in cui essa opera nel mercato, né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento di terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica (cfr. Cassazione, Sentenza n. 3196/2017)”.”Né la eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo appare sufficiente ed escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle di una società di capitali disciplinato in via generale dal codice civile, rilevando non il tipo di attività esercitata (funzioni e compiti svolti ex lege) ma la natura del soggetto, ai fini della applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale.16. Infine, la mancanza di una disciplina legislativa specifica per le due società in questione ((omissis) Spa e (omissis) Srl), con deroga espressa delle norme del codice civile, fa si’ che il fenomeno resti regolato da 2 normative coesistenti: quella pubblicistica che regola la partecipazione del soggetto pubblico (con la possibilità di nominare i componenti degli Organi sociali e di avvalersi degli strumenti di diritto societario) e quella privatistica che attiene al funzionamento della Società, con un rapporto di autonomia tra le 2 persone giuridiche.17. Affermata, pertanto, la autonomia e la struttura privatistica della Società collegata e/o partecipata, ne discendono due corollari. 18. Il primo attiene alla individuazione del giudice competente in ordine al reclutamento del personale da parte delle Società a controllo pubblico. 19. Il secondo riguarda il sindacato sull’accertamento delle vicende dei rapporti lavorativi di dette società e la individuazione della normativa applicabile. 20. Con riferimento al primo, le Sezioni Unite di questa Corte (da ultimo Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza 27 marzo 20017, n. 7759; Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza 1° dicembre 2016, n. 24591) hanno affermato il principio di diritto per cui le procedure seguite dalle Società cosiddette ‘in houseproviding’ per l’assunzione di personale dipendente sono sottoposte alla giurisdizione del giudice ordinario.21. Circa il secondo deve statuirsi, conseguentemente, che le vicende dei rapporti di lavoro del suddetto personale sono regolate dal diritto del lavoro privato e a tale regolamentazione deve aversi riguardo per valutare anche gli aspetti funzionali ed estintivi dei rapporti medesimi, oltre che quelli genetici”.
[11]Tar Umbria, Sentenza 29 gennaio 2014, n. 83: “La circostanza che il capitale sociale sia integralmente pubblico non vale infatti ad escludere l’enucleazione di un rapporto intersoggettivo, in quanto, come più volte la giurisprudenza ha sottolineato per le aziende municipalizzate, si tratta di strutture autonome e distinte rispetto all’organizzazione pubblicistica, che non ne consente l’equiparazione alle ‘Pubbliche Amministrazioni’, per le quali l’art. 63, comma 4, del già richiamato Dlgs. n. 165/2001, norma speciale, di stretta interpretazione, riserva la giurisdizione amministrativa limitatamente alle procedure concorsuali volte all’assunzione dei dipendenti (in termini, tra le tante, Tar Calabria, Reggio Calabria, Sentenza 17 aprile 2012, n. 282; Tar Lazio, Sezione II-quater, Sentenza 14 giugno 2011, n. 5266; Cassazione, Sezione Unite, Sentenza 10 marzo 2011, n. 5685)’, sicché ‘Detto in altri termini, la giurisdizione del giudice amministrativo non può ravvisarsi in relazione all’insorgenza di un rapporto di lavoro privato alle dipendenze di una società privata, anche quando qualificabile come ‘organismo di diritto pubblico’, perché comunque non annoverabile tra le Amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del Dlgs. n. 165 del 2001 (Consiglio di Stato, Sezione V, Sentenza 30 gennaio 2013, n. 570; ne consegue che ‘la giurisdizione del giudice amministrativo non può ravvisarsi in relazione all’insorgenza di un rapporto di lavoro privato alle dipendenze di una società privata, anche quando qualificabile come ‘organismo di diritto pubblico”, perché comunque non annoverabile tra le Amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del Dlgs. n. 165 del 2001 (Consiglio di Stato, Sezione V, Sentenza 30 gennaio 2013, n. 570)”.
[12] Tar Lazio – Roma Sezione II–ter, Sentenza n. 7254 del 21 giugno 2017: “a tal proposito, le Sezioni Unite della Cassazione, con Sentenza 27 marzo 2017, n. 7759, hanno affermato che le Società ‘in house’ costituiscono in realtà mere articolazioni della Pubblica Amministrazione, ma con riferimento alla sola materia del danno erariale, e che, quindi, riguardo al reclutamento del personale va mantenuta ferma la giurisdizione ordinaria, ‘trattandosi di atti posti in essere da un soggetto di diritto privato nell’esercizio di poteri privatistici”.
[13] Tar Abruzzo–Pescara Sentenza n. 101 del 15 marzo 2018, che stabilisce “che, secondo una consolidata giurisprudenza non sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo con riguardo alla procedura selettiva indetta con l’Avviso di selezione per l’assunzione a tempo indeterminato di n. …..lavoratori dalla (…..) s.p.a., rientrando la stessa tra le c.d. società in house providing. Nel sistema vigente le Società ‘in house’ – pur costituendo sul piano sostanziale mere articolazioni della Pubblica Amministrazione, con la conseguente soggezione alla giurisdizione contabile per ipotesi di responsabilità amministrativa – rimangono Società di diritto privato sul piano formale per cui, quando provvedono alla propria provvista di personale, esercitano la loro generale capacità privatistica, con conseguente devoluzione al Giudice ordinario delle relative controversie (Consiglio di Stato, Sezione V, Sentenza 21 giugno 2017, n. 3033); che la (….) Spa, dunque, seppur interamente partecipata con capitali pubblici, è pur sempre Società per azioni, pertanto vale il principio di diritto costantemente ripetuto dalla giurisprudenza secondo il quale le procedure seguite dalle Società ‘c.d. providing’ per l’assunzione del personale dipendente sono sottoposte alla giurisdizione del Giudice ordinario (ex multis Cass.,Sezione Lavoro, Sentenza 9 gennaio 2018, n. 271, Cassazione, Sezione Unite, Sentenza 27 marzo 2017, n. 7759; Cassazione, Sezione Unite, Sentenza 1° dicembre 2016, n. 24591; Tar Lazio, Sentenzenn. 1584/2014, 2349/2014, 8542/2014, 9482/2014 e 11196/2014); che l’art. 18 del Dl. 25 giugno 2008, n. 112 (convertito con modificazioni nella Legge 6 agosto 2008, n. 133), il quale detta regole diverse per le procedure di reclutamento del personale da parte, da un lato, delle società in mano pubblica di gestione di servizi pubblici locali (comma 1), e, dall’altro delle altre Società a partecipazione pubblica totale o di controllo (comma 2), è una norma di diritto sostanziale, la quale non incide in alcun modo sui criteri di ripartizione della giurisdizione in materia di assunzione dei dipendenti, che rimane devoluta, in entrambe le fattispecie anzidette, al Giudice ordinario, trattandosi ugualmente di società non equiparabili alle Pubbliche Amministrazioni (Cassazione, Sezione Unite, Sentenza 22 dicembre 2011, n. 28330); che l’atto del quale si richiede l’annullamento non è riconducibile all’esercizio di un pubblico potere, in quanto l’obbligo di adottare criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi si inserisce pur sempre nell’agire (jure privatorum) della Società, senza comportare esercizio di pubbliche potestà (cfr. Corte Costituzionale, Sentenze n. 191/2006 e n. 35/2010).”
[14] Si conferma il principio risalente a Cassazione, Sezioni Unite, Ordinanza 22 dicembre 2011, n. 28329, che aveva già stabilito che l’attività di reclutamento del personale “si inserisce pur sempre nell’agire (jureprivatorum) della Società, senza comportare esercizi di pubbliche potestà e senza incidere sulla giurisdizione”.
[15] In senso conformi anche le più risalenti Cassazione, Sezioni Unite, Sentenze 6 maggio 1995, n. 4989, 6 giugno 1997, n. 5085; 26 agosto 1998, n. 8454; ed anche Cassazione, Sezioni Unite, Sentenzenn. 3/1993, 4989/1995, 2738/1997. Nella prassi si rileva Circolare Ministero dell’Ambiente 7 ottobre 2001, n. 11559 – B01, che recita che “l’eventuale controllo [del socio P.A.] può avvenire secondo modalità previste dal diritto societario e non certo secondo rapporti gerarchici o strumentali di carattere pubblicistico”.
[16] In senso conforme la Cassazione civile, Sezioni Unite, Sentenza 20 settembre 2013 n. 21588, si è pronunciata e ha delineato il criterio generale secondo cui “spettano alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto l’attività unilaterale prodromica alla vicenda societaria considerata dal Legislatore di natura pubblicistica, con la quale un Ente pubblico delibera di costituire una Società o di parteciparvi o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della Società medesima o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della stessa. Sono invece attribuite alla giurisdizione ordinaria le controversie aventi ad oggetto gli atti societari a valle della scelta di fondo di utilizzo del modello societario, i quali restano interamente soggetti alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito”; anche Tar Sardegna, Sentenza 7 aprile 2017, n. 244.
[17] F. Cerioni “La responsabilità degli Amministratori delle Società e degli Enti pubblici soci per danno erariale” in AA.VV. “Le Società pubbliche nel Testo unico”,a cura dello stesso autore, Milano 2017.
[18] F. Cerioniop.cit.
[19] Cassazione civile, Sentenza 22 febbraio 2015, n. 1783; Cassazione civile, Sentenza 12 febbraio 2013, n. 3409.
[20] Tribunale Milano, Sentenza 15 novembre 1973, G. comm. 74, Il, 67; contra: Tribunale Milano, Sentenza 22 aprile 1970, D. fall. 70, II, 901.
[21] Tribunale Milano, Sentenza 20 novembre 1975, G. comm. 76, II, 679.
[22] Art.12 – (“Responsabilità degli Enti partecipanti e dei componenti degli Organi delle Società partecipate”)
“1.I componenti degli Organi di amministrazione e controllo delle Società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle Società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli Amministratori e dai dipendenti delle Società in house. E’ devoluta alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2.
2.Costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, direttamente subito dagli Enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli Enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione”.
[23]F. Cerioniop.cit.
[24]F. Cerioni op.cit.,“Una prima tipologia di danno al patrimonio sociale è quello che comporta la riduzione del capitale per perdite (secondo quanto disposto per le Spa dagli artt. 2446 e 2447 C.c. e per le Srl dagli artt. 2482-bis e 2482-ter), ovvero la determinazione dello stato di insolvenza, con la sottoposizione dell’ente alle procedure concorsuali e al definitivo scioglimento.Una seconda tipologia di danno al patrimonio sociale, esaminata dalla Cassazione, è quella che deriva dall’indebita sottrazione degli utili sociali da parte degli Amministratori.Una terza tipologia di danno patrimoniale non rintracciabile nei repertori della giurisprudenza civile, ma spesso esaminata dalle Procure della Corte dei conti che possono procedere d’ufficio all’accertamento delle responsabilità è quella derivante dall’uso dei beni sociali (carte di credito, autovetture, alloggi di servizio) per soddisfare bisogni personali, ovvero, dalla richiesta di rimborsi per spese sostenute per finalità estranee all’oggetto sociale.Una quarta tipologia di danno al patrimonio sociale è quella che deriva dall’assunzione di personale non necessario, non previsto dalla pianta organica, e spesso sovrabbondante, ma effettuata dietro puntuali raccomandazioni o sollecitazioni dei vertici dell’Ente — Regione, Provincia, Città Metropolitana o Ente Locale – controllante, soggetto ai limiti di assunzione imposti dalla legge, anche al fine di rispettare il Patto di stabilità. Un caso singolare è stato esaminato dalla Sezione siciliana della Corte dei conti, che ha riscontrato come l’assunzione di 4 unità di personale fosse avvenuta non solo senza la valutazione dell’effettivo fabbisogno dell’ente (si trattava di parenti di ex dipendenti deceduti) ma pure in violazione di un puntuale divieto di assunzione emanato con uno specifico atto di indirizzo del Presidente della Regione e dunque avesse concretato un danno al patrimonio sociale. Talora poi il personale in questione viene impiegato direttamente dall’Ente Locale attraverso contratti di appalto di servizio che prevedono la messa a disposizione del personale necessario con la successiva assunzione da parte dell’Ente stesso senza l’espletamento di procedure concorsuali (o, come si usa dire, viene ‘internalizzato’). Parimenti dannosi sono i casi di attribuzione di incarichi di collaborazione o consulenza a soggetti esterni alla compagine sociale, senza una seria ricognizione preventiva dell’utilità dell’incarico nonché della presenza di risorse interne idonee a svolgerlo, specie prima del 2009, attesi i limiti stabiliti dall’art. 61, comma 7, del Dl. n. 112/2008 (e poi ribaditi dall’art. 4, comma 10, del Dl. n. 95/2012). Una quinta tipologia di danno al patrimonio sociale, vagliata sempre dai giudici contabili, deriva dalla promozione indiscriminata del personale delle Società ad una qualifica superiore ovvero dalla corresponsione al medesimo personale nonché agli Amministratori di incrementi retributivi, premi ed indennità, non dovuti o addirittura vietati dalla legge, ovvero dalla corresponsione di compensi in misura superiore ai limiti legali fissati anche per le Società pubbliche. Una sesta tipologia di danno al patrimonio sociale può derivare dalla corresponsione di compensi ai componenti degli organi sociali già titolari di incarichi di amministrazione nell’Ente Locale, in violazione del divieto posto dall’art. 1, comma 718, della Legge n. 296/2006, fatte salve le incompatibilità previste dall’art. 13 Dlgs. n. 39/2013, che comunque comportano la nullità del contratto. Una settima tipologia di danno al patrimonio sociale accertata dai giudici contabili è quella che deriva dal pagamento di sanzioni riferibili a condotte o ad omissioni degli Amministratori, dei dipendenti e persino dei collaboratori esterni dell’Ente.” (……) I danni patrimoniali direttamente sopportati dall’Ente pubblico socio, invece, sono quelli che derivano:
a) dal mancato raggiungimento dei risultati di pubblica utilità per cui la Società è stata costituta con conseguente inutile dispendio di risorse pubbliche ovvero dell’abuso dello strumento societario per eludere inderogabili vincoli pubblicistici (nazionali o europei);
b) dai versamenti in conto capitale a favore della Società per ripianare le perdite;
c) dall’accantonamento nel fondo vincolato già previsto dall’art. 1, co. 551, della Legge n. 147/2013 ed ora dall’art. 21 del ‘Testo unico’, di importi corrispondenti al risultato negativo di esercizio non immediatamente ripianato;
d) dalla necessità di effettuare prestiti all’ente partecipato non remunerativi o non restituiti;
e) dalla necessità di fornire garanzie alle operazioni di finanziamento da parte di terzi (banche Società finanziarie, ecc.);
f) dalla svalutazione della partecipazione sociale derivante dalle condotte degli Amministratori che abbiano pregiudichino seriamente il patrimonio o determinato un ‘downgrading’ della Società;
g) dalla perdita integrale del capitale investito nella Società (cosiddetto cd. danno da dissipazione della partecipazione sociale);
h) dalla perdita conseguente al mancato esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli Amministratori delle partecipate responsabili del pregiudizio al patrimonio sociale (che consente al socio pubblico di chiedere i danni anche per le condotte che non determinano effetti negativi sul patrimonio dell’ente pubblico);
i) dalla lesione/compromissione dell’immagine dell’Ente pubblico finanziato (con i limiti previsti dall’art. 17, comma 30-ter, Dl. n. 78/2009).
[25] F. Cerioniop.cit.
[26] C. Ibba “La responsabilità” in “Le Società a partecipazione pubblica” – Commentario tematico ai Dlgs.n. 175/2016 e n. 100/2017 diretto da C. Ibba e I. Demura – Zanichelli 2017.
[27] Art. 73, Dlgs. n. 174/2016. La disposizione (che apre la Sezione del “Codice di Giustizia contabile” dedicata alle “Azioni a tutela delle ragioni del credito erariale”) riproduce senza sostanziali variazioni quella introdotta dall’art. 1, comma 1740, Legge 23 dicembre 2005, n. 266.
[28] Cfr. App. Napoli, Sentenza 27 ottobre 2015, in www.dejure.it, che dalla norma da ultimo citata alla nota precedente argomenta per ricavarne, sia pure incidentalmente, “la possibilità, non sempre adeguatamente valorizzata, che la Procura contabile agisca ex art. 2392 C.c. nei confronti degli Amministratori in via surrogatoria dell’ente socio la cui inerzia pregiudichi il valore della partecipazione sociale”; per qualche spunto v. inoltre G.M. Caruso, Il socio pubblico, cit., 373, nella nota 125.
[29] F. Cerioni Op.cit.
[30] F. Cerioni Op.cit.
[31]F. Goisis, E. Codazzi “Crisi di impresa e Società a partecipazione pubblica” in“Le Società pubbliche nel ‘Testo unico’”,Milano 2017.
[32] Art. 14, comma 5:“le Amministrazioni di cui all’art. 1, comma 3, della Legge n. 196/2009, non possono, salvo quanto previsto dagli artt. 2447 e 2482-ter del Cc., sottoscrivere aumenti di capitale, effettuare trasferimenti straordinari, aperture di credito , né rilasciare garanzie a favore delle Società partecipate con esclusione delle Società quotate e degli Istituti di credito, che abbiano registrato, per 3 esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali. Sono in ogni caso consentiti i trasferimenti alle Società di cui al primo periodo a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero alla realizzazione di investimenti. Al fine di salvaguardare la continuità nella prestazione di servizi di pubblico interesse, ovvero alla realizzazione di investimenti, purché le misure indicate siano contemplate in un Piano di risanamento, approvato dall’Autorità di regolazione di settore ove esistente e comunicato alla Corte dei conti con le modalità di cui all’art. 5, che contempli il raggiungimento dell’equilibrio finanziario entro 3 anni. Al fine di salvaguardare la continuità nella prestazione di servizi di pubblico interesse, a fronte di gravi pericoli per la Sicurezza pubblica, l’Ordine pubblico e la Sanità, su richiesta dell’Amministrazione interessata, con Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze, di concerto con gli altri Ministri competenti e soggetto a registrazione della Corte dei conti, possono essere autorizzati gli interventi di cui al primo periodo del presente comma”.
[33]Le parole “comma 2” sono state sostituite alle precedenti “comma 3” dall’art. 8, comma 1, lett. b), del Dlgs. n. 100/2017.
[34] Un aspetto problematico sulla reale efficacia dei Piani di risanamento è il riconoscimento o meno dell’effetto protettivo dalla revocatoria fallimentare e la garanzia dell’esenzione dai reati di bancarotta.
di Roberto Camporesi