Conti pubblici: così il Governo ha congelato il rischio dissesto per quattro tra le principali Città italiane e un comune siciliano su due

DOSSIER A CURA DI CENTRO STUDI ENTI LOCALI

BILANCIO DI PREVISIONE 2021: A METÀ NOVEMBRE DUE TERZI DEI COMUNI SICILIANI NON L’AVEVANO ANCORA APPROVATO

A metà novembre due terzi dei Comuni siciliani non avevano ancora approvato il bilancio di previsione 2021-2023 e tuttora, a un passo dalla chiusura dell’esercizio finanziario, nella Banca dati delle Amministrazioni Pubbliche mancano all’appello oltre 200 preventivi, più della metà dei quali attesi proprio da amministrazioni siciliane. La ragione? L’impossibilità di mettere in pareggio i bilanci e quindi lo spettro del dissesto che aleggia su un numero talmente alto di comuni da indurre il Governo ad adottare, proprio in questi giorni, due provvedimenti di emergenza da 300 milioni di euro per tamponare la situazione e disinnescare la bomba a orologeria che rischiava di mandare in default 4 delle principali Città italiane e un comune siciliano su due.

L’incapacità di varare il bilancio di previsione da parte di così tanti enti in un’unica regione è la spia della cronica crisi che attanaglia la terra della Trinacria ormai da decenni. Le risorse straordinarie stanziate dall’esecutivo approderanno nelle casse di 193 comuni siciliani. Se questi fossero andati a ingrossare le fila degli enti che sono già in default (100 su 391, secondo Anci Sicilia), la percentuale di enti in dissesto nell’isola avrebbe superato il 75%.

È quanto emerge da un dossier di Centro Studi Enti Locali basato sull’elaborazione di dati del Ministero dell’Interno e del Mef.

Le risorse destinate alle grandi città

Due le misure che hanno incassato il via libera della Conferenza Stato Città il 16 dicembre: la prima ripartisce 150 milioni di euro tra 193 comuni siciliani per ridurre il disavanzo e metterli in condizione di approvare il bilancio di previsione 2021-2023. L’altra ripartisce la stessa somma tra i Comuni sede di capoluogo di Città di metropolitana in cui il disavanzo è talmente vasto da sforare quota 700 euro pro-capite. Quattro le città che corrispondono a questo identikit: Napoli, Reggio Calabria, Palermo e Torino.

A NAPOLI IL 57% DELLE RISORSE STANZIATE PER SALVARE LE GRANDI CITTÀ A RISCHIO DEFAULT

Qualcuno ricorderà che la città partenopea aveva già fatto la parte del leone lo scorso luglio in occasione del riparto del cosiddetto “fondo salva comuni”. Con i suoi oltre 246,5 milioni, Napoli aveva assorbito il 37% delle risorse messe sul tavolo. Anche in questa occasione è stato il capoluogo campano a catalizzare il grosso delle somme in ballo: oltre 85 milioni su 150, pari al 57% del totale. Seguono il capoluogo piemontese, con 30,2 milioni (20%), Palermo con più di 24 milioni di euro (16%) e Reggio Calabria, ferma a quota 7% con i suoi 10,1 milioni. Va detto però che a Palermo sono stati destinati anche 45 milioni di euro per il tramite del “Decreto Sicilia” (poco meno di un terzo del totale). Complessivamente, quindi, la quota riservata al capoluogo della Sicilia è di poco inferiore a 70 milioni.

Il caso Sicilia

I 150 milioni stanziati appositamente per gli enti siciliani, saranno ripartiti tra 193 comuni. Le province in assoluto più colpite dalla “crisi dei conti” sono Messina e Catania. Per avere un’idea di quanto sia dilagante il problema in questa porzione dell’isola basti pensare che sono stati messi in sicurezza, almeno temporaneamente, i conti di49 comuni su 50 nel messinese e 42 enti catanesi su 58. A questi si sommano 36 comuni del palermitano, 21 dell’agrigentino, 12 comuni del siracusano, 10 enti in provincia di Ragusa, 9 comuni dell’area di Caltanissetta, altrettanti in provincia di Trapani e 6 in provincia di Enna.

TRABALLANO I CONTI DI 49 COMUNI SU 50 NEL MESSINESE E 42 SU 58 IN PROVINCIA DI CATANIA

Ma da cosa origina questa crisi così generalizzata? L’opinione diffusa è che questo genere di criticità si verifichi negli enti che spendono troppo e male. In realtà, questo tipo di gestione malsana dei conti è stata quasi estirpata dai vincoli via via sempre più stringenti imposti dal legislatore.

La spada di Damocle che pende sui conti siciliani (e non solo), è sempre più spesso rappresentata non dal sovraindebitamento, bensì, paradossalmente, dal sovraccreditamento. Vale a dire che la vera falla del sistema, anche secondo Centro Studi Enti Locali, è la bassissima capacità di riscossione di molte amministrazioni, i cui numerosi e ingenti crediti incagliati/di difficile esazione vanno a gonfiare a dismisura il fondo crediti di dubbi esigibilità e, sempre più spesso, rendono impossibile il raggiungimento del pareggio finale tra gli stanziamenti di entrata e di spesa del bilancio di previsione.

Infatti, come noto, gli enti devono iscrivere tra gli stanziamenti di spesa del bilancio di previsione un apposito accantonamento (Fondo crediti di dubbia esigibilità – Fcde) determinato in ragione della capacità media di riscossione delle proprie entrate registrata nell’ultimo quinquennio, rapportata agli stanziamenti di entrata. Tale accantonamento è destinato, dunque, a crescere progressivamente man mano che le performance di riscossione dell’ente peggiorano.

Stessa cosa accade anche in occasione del rendiconto della gestione ove una volta determinato il risultato di amministrazione dell’esercizio viene costituito un accantonamento a Fcde determinato in ragione della capacità media di riscossione delle proprie entrate registrata nell’ultimo quinquennio, rapportata ai residui attivi conservati (cioè i crediti mantenuti a bilancio). Laddove il risultato di amministrazione, come sempre più spesso accade, non risulti capiente, l’ente determinerà un maggiore disavanzo di amministrazione che dovrà essere ripianato iscrivendo un’apposita spesa (disavanzo di amministrazione) nel bilancio bilancio di previsione in corso di gestione.

Entrambi gli accantonamenti a Fcde (sia a bilancio di previsione che a consuntivo) comportano un appesantimento della spesa che grava negativamente sugli equilibri di bilancio di previsione, determinando dunque sempre più spesso l’impossibilità di definire un bilancio di previsione in pareggio, vale a dire in gergo tecnico: determinano uno squilibrio strutturale di bilancio.

A decorrere dall’entrata in vigore dell’armonizzazione dei sistemi contabili degli Enti Locali e fino al 2019 gli enti hanno potuto beneficiare di piccole agevolazioni che hanno consentito di assimilare gradualmente l’impatto derivante dall’applicazione dei nuovi obblighi contabili, di fatto concedendo agli enti il tempo necessario per un cambio di passo nella riscossione delle entrate proprie.

Come programmato dal legislatore, dal 2019 tali agevolazioni sono state eliminate e gli enti che, spesso colposamente, non hanno registrato miglioramenti nel trend di riscossione delle entrate proprie, si sono trovati davanti alla necessità di fare fronte, tra gli altri, alle esigenze finanziarie e di bilancio in parola.

Implicazioni mancata approvazione bilancio preventivo

Ma cos’è esattamente un bilancio di previsione e cosa comporta la sua mancata approvazione nei termini previsti dalla legge? Si tratta di uno dei documenti contabili chiave per le amministrazioni pubbliche. È un documento di pianificazione economica e di programmazione politica che viene approvato annualmente dal Consiglio comunale su proposta della Giunta. Questo dovrebbe essere deliberato entro il 31 dicembre dell’anno precedente ma questa scadenza, anche a causa delle costanti modifiche normative che rendono incerta e difficoltosa la programmazione finanziaria, viene sistematicamente prorogata. È di questi giorni, ad esempio, la notizia che il bilancio 2022-2024 slitterà al 31 marzo dell’anno prossimo. Una prassi, questa, più volte censurata dalla Corte dei conti che insiste sull’importanza di fare una vera programmazione di ampio respiro.

L’anno scorso, complice anche il riacutizzarsi della pandemia, la scadenza per l’approvazione del bilancio 2021-2023 è scivolata fino al 31 maggio. Ciò eccezion fatta per una particolare categoria di enti; il decreto Sostegni bis autorizzò infatti la proroga al 31 luglio per le amministrazioni che avevano incassato le anticipazioni di liquidità al centro della sentenza della Corte costituzionale n. 80/2021, i cui effetti rischiavano di essere talmente dirompenti che per ovviarvi fu varato il “Salva comuni”.

Una volta approvati, i bilanci devono essere trasmessi entro 30 giorni al Mef, per il tramite della Bdap. Quindi tra gli oltre 200 preventivi che mancano all’appello nella banca dati, ci sono anche i bilanci approvati nelle ultime settimane e non ancora trasmessi.

Ma cosa succede in caso di mancata approvazione di questo documento entro il termine stabilito per legge? Scatta la “gestione provvisoria”: fase in cui il comune può “assumere solo obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali esecutivi, quelle tassativamente regolate dalla legge e quelle necessarie ad evitare che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all’ente”. In altre parole, l’amministrazione ha le mani legate: stop agli investimenti, blocco delle assunzioni e dei trasferimenti da parte dello Stato.

Possono essere sostenute soltanto le spese obbligatorie per legge, come onorare i contratti già assunti, pagare i dipendenti e offrire servizi pubblici essenziali come la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. Persino servizi comunemente percepiti come fondamentali, quali la mensa o il trasporto scolastico, non fanno parte di questo ristretto elenco. Un ente che non approva il proprio bilancio non può, quindi, neanche offrire questo genere di servizi ai propri cittadini (sebbene, nella prassi, questo divieto sia spesso aggirato).

Conseguenze dunque gravissime e devastanti per le comunità che si trovino coinvolte in crisi simili. Ma cosa le determina generalmente? Nei casi in cui lo stallo è di natura politica, questo può essere efficacemente sanato attraverso gli strumenti previsti dalla legge, quali il commissariamento e, nei casi più gravi, lo scioglimento del Consiglio comunale. In altri casi invece l’esercizio provvisorio o addirittura la gestione provvisoria sono favorite da un tacito accordo tra gli Uffici comunali (che dovendo seguire le limitazioni ferree prima citate sulle spese sostenibili in tale contesto si sostituiscono – a volta involontariamente mentre altre volte consapevolmente – proprio alla politica nel fare le scelte gestionali e strategiche dell’Ente, autoergendosi a paladini del rigore finanziario.

Per di più, il problema (anche) siciliano è che molto spesso l’impasse è però di natura “tecnica”. Il bilancio di previsione deve essere deliberato in pareggio finanziario complessivo per l’esercizio di competenza, cioè deve esserci equilibrio tra spese ed entrate finali. Per molti enti – soprattutto siciliani – le uscite (inclusi tra queste il Fcde di competenza dell’anno e il disavanzo di amministrazione determinato per l’incremento del Fcde a consuntivo) superano nettamente le entrate e, non potendo più intervenire sul fronte spese (già ridotte al lumicino e al minimo previsto dalla legge), l’unica strada per raggiungere l’obiettivo sarebbe agire sulla leva delle entrate, aumentandole. ovvero, di ridurre gli accantonamenti e i disavanzi migliorando la capacità di riscossione delle proprie entrate. Il fatto è che la capacità di riscuotere i propri denari è mediamente così bassa che gli incassi non bastano neanche a coprire il minimo sindacale che ogni comune deve garantire nell’ambito della propria gestione. Mettere nero su bianco questa impossibilità di “pareggiare i conti”, equivale a dichiarare il dissesto finanziario. Il risultato è lo stallo in cui si trovano oggi centinaia di enti.

Questo non è un problema squisitamente siciliano (e non a caso tra gli enti che hanno passato quasi l’intero anno in esercizio provvisorio ci sono anche comuni calabresi (11%), campani (9%), lombardi (4%), laziali (3%), piemontesi (3%), abruzzesi, pugliesi, lucani, marchigiani, sardi e molisani. Ma non è un caso che più del 60% fosse siciliano. Questa regione sconta probabilmente una storica minore attenzione alla riscossione delle entrate e, talvolta, scarsa prudenza da parte dei responsabili dei servizi finanziari ma c’è anche un problema culturale e sociale che non può essere imputato agli enti. Secondo Centro Studi Enti Locali è un dato di fatto che qui si faccia più difficoltà che altrove a riscuotere, sia per una storicamente minore propensione a pagare da parte dei contribuenti ed a richiederne il pagamento da parte degli Uffici a ciò deputati, che per una oggettiva capacità contributiva minore, certificata anche dai dati Istat che vedono la Sicilia fanalino di coda per redditi medi annuali delle famiglie (23.879 contro la media nazionale di 31.641).

Ciò a fronte di servizi i cui costi non sono proporzionalmente più bassi e che, al contrario, nel caso dello smaltimento e conferimento in discarica dei rifiuti, sono tra i più onerosi del Paese. Sicuramente il fatto che così tanti enti non possano offrire servizi adeguati o fare investimenti volti a favorire l’occupazione e sostenere l’economia locale, non giova né all’affezione verso la cosa pubblica, né alla capacità reddituale media e non crea terreno fertile per migliorare la fedeltà contributiva.

Come uscire da questo circolo vizioso? Secondo Centro Studi Enti Locali, l’intervento dello Stato per mettere in sicurezza i conti di questi enti è da ritenersi necessario sotto l’aspetto tecnico e relativo, ma ma, per come concepito, rischia di essere una misura miope, utile oggi solo ad alcuni e incapace di risolvere il problema di molti enti che, nonostante il contributo non riusciranno a risolvere il problema del bilancio di previsione. Ciò anche in considerazione dei distorsivi parametri utilizzati per la distribuzione delle risorse che hanno comportato evidenti iniquità.

Per essere realmente utile al “Sistema Paese” e quindi in termini assoluti necessità di un cambio di passo della cultura gestionale (non solo in Sicilia, ovviamente), troppo spesso a tutt’oggi ancorata alle logiche del passato ed al falso mito dello strisciante assistenzialismo (o forse meglio di fatalismo inerziale consapevole) che fa a pugni, sia con il (purtroppo ancora imperfetto e incompleto) dogma del “Federalismo fiscale” attuativo della Riforma del Titolo V della Costituzione  (autonomia tributaria e finanziaria in cambio della fine dei trasferimenti erariali consolidati). E se ci si volesse chiedere con onestà ed umiltà in che modo poter dare prova di sé per meritare sostegno economico e finanziario costruttivo e sistemico e non invece passivo e straordinario a fondo perduto, le risposte per Centro Studi Enti Locali sarebbe solo due: la prima, infrastrutturare come spesa di investimento pluriennale una politica decisa, aperta e trasparente di (ri)attivazione della macchina della riscossione delle entrate (tributarie e non tributarie), e la seconda, dimostrare ai tanti scettici di ben programmare e spendere (nonostante le onormi lacune di personale e competenzialità attuali) le risorse del “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, e sfida nella sfida per il Sud, di farlo avendo almeno un 40% di quelle nazionali nella proria competenza. Certo è che la richiesta siciliana – accolta dal Governo nazionale ad ottobre di quest’anno, di far subentrare Agenzia delle entrate-Riscossione a Riscossione Sicilia nel “lavoro sporco” dell’incasso delle proprie spettante non pare andare nella direzione indicata.