Fallimento Società pubbliche: si consolida l’orientamento che porta alla loro fallibilità

Fallimento Società pubbliche: si consolida l’orientamento che porta alla loro fallibilità

Il Tribunale di Pescara, chiamato a pronunciarsi sul ricorso con riserva di domanda di concordato preventivo da parte di una Società per azioni c.d. “in house” gerente un “servizio pubblico locale a rilevanza economica”, con la Sentenza 14 gennaio 2014, ha rilevato che, dalla documentazione allegata alla relativa istanza, emerge che la Società de qua è imprenditore commerciale fallibile.

Posto che dalla lettura della citata Sentenza emergono interessanti considerazioni in merito alla tematica della fallibilità delle Società a partecipazione pubblica, di seguito si schematizza il percorso logico seguito dai Giudici aditi per trarre la conclusione di cui sopra. Tenendo presente che gli stessi Giudici, nell’analizzare la materia di cui trattasi, hanno dapprima demolito le impalcature costruite dai sostenitori dei 2 orientamenti che negano la sottoposizione delle Società pubbliche alle procedure concorsuali, e poi hanno sposato (in buona sostanza) la visione ermeneutica fornita dalla Suprema Corte con la Sentenza n. 22209 del 27 dicembre 2013, che invece non preserva tali Società dalla soggezione al fallimento (e al concordato preventivo).

Inoltre, i citati Giudici hanno soggiunto ulteriori considerazioni riguardanti, nell’universo delle Società pubbliche, il circoscritto ambito delle Società c.d. “in house”, verso cui l’applicazione della “Legge Fallimentare” non comporterebbe alcuna incompatibilità di sorta.

 

Denominazione dei 2 orientamenti che negano la fallibilità delle Società pubbliche Contenuto dei 2 orientamenti Obiezioni che negano la sostenibilità dei contenuti

dei 2 orientamenti

Tipologico Tale orientamento “… ha aderito alla tradizionale teoria degli indici sintomatici della pubblicità, in forza della quale la qualificazione (ai fini della disciplina applicabile, in senso privatistico o pubblicistico) di un ente pur formalmente definito società per azioni va operata caso per caso, dando prevalenza alla sostanza sulla forma e avendo riguardo al carattere strumentale o meno dell’ente societario rispetto al perseguimento di finalità pubblicistiche e all’esistenza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario. In quest’ordine di idee, l’applicazione analogica dell’art. 11. fall, ad un ente formalmente privato avviene sulla base di una riqualificazione pubblicistica operata in via interpretativa. Cosi, si è fatto riferimento ai c.d. indici esteriori sintomatici della pubblicità individuati, di volta in volta, nella costituzione ad iniziativa pubblica, nella nomina o designazione pubblica degli organi, nello scioglimento ad iniziativa pubblica, nella sottoposizione ad amministrazione straordinaria, nel controllo pubblico sul bilancio preventivo e sul conto consuntivo, o sullo statuto, o sul regolamento organico, nel finanziamento pubblico e nella titolarità dell’ente di potestà pubblicistiche. In sostanza si fa uso di un criterio di natura empirica”. 1° obiezione: l’orientamento “… si scontra con il principio generale, tuttora vigente, stabilito dalla Legge n. 70/75, art. 4, che, nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, evidentemente richiede che la qualità di Ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco”;2° obiezione: volendo far proprio l’approccio tipologico “… da un lato, non è dato capire quali siano le norme di diritto societario, derogate per le quali, una società per azioni da ente privato possa dirsi pubblico; dall’altro lato, non appare corretto ritenere la figura dell’Ente pubblico ‘residuale’ rispetto a quella della Società per azioni (e dunque ricavata a contrario dalle deviazioni al regime tipico di quest’ultima)”;
Funzionale Il secondo orientamento si fonda su   un’impostazione “… tesa all’individuazione della concreta disciplina applicabile all’ente, secondo un approccio “funzionale” ritenendo applicabile le disposizioni di diritto pubblico, qualora espressamente previste, e di diritto privato, in assenza di diverse previsioni, quando non vi sia ragione di derogare ad esse in considerazione degli interessi protetti”.Questa prospettiva per il fine di cui trattasi determina 2 conseguenze:

a)… l’esenzione dal fallimento di cui all’art. 1° l. fall. (intesa a sua volta come effetto della “necessità” dell’ente) viene considerata quale norma posta a garanzia della continuità di una determinata funzione, come tale suscettibile di applicazione analogica nei confronti di società per azioni, allorquando queste ultime siano destinate allo svolgimento di attività che abbiano rilievo pubblicistico”;

b)…. l’applicazione della procedura fallimentare potrebbe comportare la lesione di interessi meritevoli di tutela, in tutti i casi in cui l’esistenza della società sia considerata necessaria dall’ente territoriale di riferimento. La necessità viene ancorata al dato dell’erogazione di un servizio pubblico essenziale, rispetto al quale, se intervenisse la dichiarazione di fallimento, si avrebbe un’inammissibile, sostituzione dell’Autorità giudiziaria ordinaria all’Autorità amministrativa nell’esercizio di poteri e facoltà di carattere pubblicistico, quali la decisione in ordine alla continuità o meno nella gestione del servizio. Si sostiene che la procedura fallimentare, con il suo carattere di esecuzione generale ed il suo fine di tutela delle ragioni dei creditori, lederebbe in sostanza interessi pubblici, ponendo problemi di compatibilità con i principi costituzionali che regolano l’agire amministrativo, in ragione dei quali dovrebbero ritenersi non sottoposte a fallimento le società deputate all’erogazione di servizi pubblici essenziali”.

Obiezioni alla conseguenza sub a): Siffatta conseguenza “ … presuppone una lacuna nell’ordinamento che comporterebbe la necessità di tutelare l’interesse pubblico mediante l’esenzione dal fallimento, ma non appare corretto supporre l’esistenza di tale lacuna, mentre la continuità dell’attività e l’esigenza di cura di interessi pubblici (soprattutto, con riferimento alla materia dei servizi pubblici locali) dovrebbero ad oggi ritenersi garantite da specifiche discipline, che prescindono dall’applicazione di istituti di privilegio quali l’esenzione dal fallimento e, dunque, non vi sarebbe spazio per una applicazione analogica dell’art. 1 ‘Legge Fallimentare”.Obiezioni alla conseguenza sub b):

-“ … rispetto al requisito della necessità, va rilevato che a voler fondare l’esenzione dal fallimento sul contenuto e sulle caratteristiche dell’attività esercitata si dovrebbe prospettare – al di fuori di ogni previsione normativa – l’esclusione dal fallimento anche per soggetti sicuramente privati che eroghino, ad esempio in forza di una concessione, un servizio pubblico”;

-rispetto “… alla scelta di restringere l’applicazione analogica dell’art. 1 della ‘Legge Fallimentare’ ai soggetti esercenti servizi pubblici essenziali, non sembra vi sia un’incompatibilità ontologica fra erogazione di servizi pubblici essenziali e sottoposizione a fallimento in quanto l’esercizio provvisorio dell’impresa ex art. 104 Legge Fallimentare, può essere visto quale “strumento temporaneo per non interrompere la gestione finché l’ente locale non provveda a nuove modalità di affidamento del servizio, con gara o mediante autoproduzione. In tale prospettiva si è posta anche, recentemente, la Suprema Corte con la Sentenza n. 22209 del 27 settembre 2013 negando, di fatto, il diverso indirizzo dottrinario per il quale una simile ipotesi non sarebbe praticabile sulla base della considerazione che l’esercizio provvisorio sarebbe legato esclusivamente all’interesse dei creditori del fallito, con la conseguenza che il Tribunale non potrebbe disporlo per garantire la continuità della prestazione del pubblico servizio, laddove ciò possa pregiudicare l’interesse dei creditori alla massimizzazione della loro percentuale di riparto e condividendo, invece, la tesi secondo cui nel valutare la ricorrenza di un danno grave, in presenza del quale autorizzare l’esercizio provvisorio, il tribunale può tenere conto non solo dell’interesse del ceto creditorio, ma anche della generalità dei terzi, fra i quali ben possono essere annoverati i cittadini che usufruiscono del servizio erogato dall’impresa fallita”.

 

Rilevato quanto sopra, il Tribunale di Pescara ha posto in evidenza il fatto che la Cassazione ha avuto modo di valorizzare, ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, “…non il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto ed ha sottolineato le ragioni di tutela dell’affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica”.

Seguendo questa linea i Giudici di primo grado, condividendone i contenuti, hanno ritenuto opportuno volgere attenzione alla seguente considerazione degli Ermellini: “la scelta del Legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a Società di capitali – e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico – comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità” (Cfr. Sentenza n. 22209/13).

Ciò posto, con particolare riferimento alle Società c.d. “in house”, la Sentenza in commento lascia intendere che la qualificazione in senso privatistico o pubblicistico che a loro voglia attribuirsi non riverbera alcuna conseguenza rispetto all’applicazione della “Legge Fallimentare”. Ma, ritenuto che i medesimi Organismi partecipati, come più volte precisato dalla giurisprudenza comunitaria, costituiscono una longa manus degli Enti pubblici soci – tant’è che il rapporto che viene a vigere tra i 2 soggetti richiamati è di “delegazione interorganica” -è da chiedersi qual è l’assunto che sorregge l’affermazione del periodo precedente.

La risposta si rinviene nella stessa Sentenza del Tribunale di Pescara: “… la natura del rapporto funzionale [che si crea tra socio pubblico e Società “in house”] non si riflette sulla disciplina normativa applicabile all’organizzazione societaria, che rimane quella ordinaria prevista dal Codice civile”, né tantomeno involge i rapporti con i terzi (in tal senso vanno gli orientamenti della giurisprudenza, civile e amministrativa, che risultano confermati dalla Suprema Corte nella ridetta Sentenza n. 22209/13, ma anche specifici pareri delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti).

In questa prospettiva, la Sezione regionale di controllo per la Lombardia della Giustizia contabile[1] ha ritenuto (in buona sostanza) che l’erogazione di un prestito ad una Società “in house” posta in essere dal socio di riferimento sconta le peculiari prescrizioni contenute negli artt. 2467 e 2497-quinquies, Cc. Secondo tali prescrizioni, se al momento dell’erogazione delle somme l’Impresa collettiva medesima risulti sottocapitalizzata in virtù della preminenza nelle proprie fonti di finanziamento del capitale di terzi su quello proprio, il rimborso del mutuo si pospone alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la Dichiarazione di fallimento della Società, deve essere restituito.

Premesso quanto sopra, i Giudici di prime cure hanno sostenuto conclusivamente “… che il contemperamento fra tutela dei creditori e necessità di efficiente gestione del servizio non va cercato nell’applicazione di istituti di privilegio, tipicamente previsti per Enti pubblici, che operano sul piano dell’attività (come l’esenzione dal fallimento)”.

A supporto della linea interpretativa secondo la quale negli affidamenti “in house” la natura del rapporto funzionale tra socio pubblico e Organismo partecipato non genera conseguenze di sorta nei rapporti con i terzi, si ritiene opportuno aggiungere quanto sancito in proposito dalla Sezione regionale di controllo per la Basilicata[2].

In tema di responsabilità del socio pubblico per le obbligazioni assunte dall’Organismo a cui partecipa, i Giudici contabili lucani non sostengono la tesi di un allargamento di responsabilità per l’Ente Locale socio di una Società c.d. “in house”, perché “la natura del rapporto che intercorre tra l’Ente pubblico e la Società da esso stesso partecipata, che si definisce in termini di ‘controllo analogo’, vale … non già a giustificare una disciplina diversa da quella comune, quanto ai rapporti sociali o tra la Società e i terzi, ma solo giustifica la deroga alle disposizioni comunitarie in materia di tutela della concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi”.

La Sezione Basilicata trova il fondamento della sua asserzione in un intervento della giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sezione V, Sentenza n. 1365/09, che richiama la Causa C-324-07 “Coditel Brabant Sa”), secondo il quale “’il requisito del controllo analogo non sottende una logica dominicale’ [propria del padrone rispetto ai suoi possedimenti], ma rivela piuttosto una dimensione ‘funzionale’”.

La richiamata fonte giurisprudenziale ha avuto modo di precisare, quanto al primo aspetto, che il “controllo analogo”, sussistendo “anche nel caso di una pluralità di soggetti pubblici (partecipi) al capitale della Società”, non è “indispensabile che ad esso corrisponda simmetricamente un controllo della governance societaria”; rispetto al secondo, che l’attività di Società affidatarie “in-house” di servizi pubblici“rimane un’attività funzionalizzata, rispetto alla quale la forma degli strumenti giuridici utilizzati non rileva in sé, risultando invece finalizzata al miglior conseguimento degli scopi legali dell’Amministrazione”.

 di Ivan Bonitatibus e di Edoardo Rivola 

[1] Parere 18-29 giugno 2009 n. 385.

[2] Cfr. Deliberazione n. 13 del 16 maggio 2011.


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